Gli insegnamenti e il modo di essere di Vittoria Maioli Sanese rappresentano un lascito importante anche per il mondo del lavoro
Il 28 aprile (1943) è il giorno in cui nacque Vittoria Maioli Sanese, psicologa, moglie, madre e, per moltissimi, una figura chiave nel modo in cui oggi proviamo a parlare di famiglia, educazione, affetti. È scomparsa il 18 gennaio 2024, all’età di ottant’anni. La sua voce, però, non è venuta meno. E non lo dico per convenzione. La sua voce continua, anche letteralmente, a parlarci.
“Ci vediamo prima della cena”, mi dice, e poi torna con un paio di pantaloni neri e mocassini da uomo. “Sono di mio marito, ti andranno bene”, aggiunge. Per molti anni, d’allora, ci siamo rivisti al Meeting di Rimini. Un saluto, un sorriso, a volte due parole. Ma io, nel frattempo, avevo iniziato a scoprire chi era quella donna. E quanto il suo lavoro, che all’inizio mi sembrava riguardare solo le famiglie, parlasse in realtà anche a me, alla mia vita professionale, alle relazioni che ogni giorno cerco di accompagnare nei contesti più diversi: nelle aziende, nei colloqui, nella formazione, nelle comunità educative.
Vittoria aveva una capacità rara: prendere sul serio l’esperienza, anche quando è contraddittoria, anche quando ferisce. Lo faceva senza offrire scorciatoie, ma spalancando un ascolto che non era passivo: era educativo. Chi ha avuto modo di incontrarla in un consultorio, in un ritiro, in un incontro pubblico, lo sa bene: il suo modo di guardare alla realtà non lasciava tranquilli, ma metteva in moto.
È anche per questo che, a un anno dalla sua scomparsa, un gruppo di madri ha realizzato un podcast che è diventato, per chi ha voglia di mettersi in ascolto, un’eredità viva. Il podcast si chiama “Rigenerati. A tu per tu con Vittoria Maioli Sanese”, scritto da Giulia Reali insieme a Cecilia Spinelli, Nicole Bergamaschi, Anna Pelleri e altre donne, con il supporto del Consultorio Ucipem di Rimini e della famiglia Maioli Sanese.
Le puntate nascono da registrazioni autentiche dei dialoghi che Vittoria teneva con i genitori. E non sono un omaggio postumo, né un esercizio di nostalgia. Sono un’esperienza viva, che si può fare oggi. Perché si sente, parola per parola, un modo di parlare ai genitori senza idealizzarli e senza accusarli, ma facendoli ripartire dalla propria realtà, anche se confusa, anche se fragile.
Ascoltando il podcast, mi sono ricordato di quante volte quello che avevo letto o sentito da Vittoria lo avevo usato come spunto per proporre soluzioni a imprenditori o accompagnare persone nel lavoro. Quelle stesse parole sono vere anche quando si prova a stare seriamente di fronte a tutto ciò che accade nella vita e quindi anche per chi gestisce un’azienda, per chi guida un team, per chi è chiamato ad accompagnare i cambiamenti nel lavoro.
Il modo in cui Vittoria parlava di dinamiche affettive, della fatica di crescere, del bisogno di riconoscimento e di perdono, tutto questo riguarda direttamente anche le nostre organizzazioni. Se c’è una cosa che manca spesso nel lavoro, è proprio quella posizione di sguardo: non giustificazionista, ma capace di far crescere. Capace di aiutare le persone – e anche sé stessi – a stare nella realtà senza rinunciare alla propria responsabilità.
In uno dei suoi interventi più chiari sul tema, “L’équipe, luogo generativo di formazione nella condivisione”, Vittoria dice che «il lavoro comune è un luogo dove la differenza tra le persone non è ostacolo, ma condizione per una generazione reciproca». E aggiunge che la vera formazione sul lavoro non è mai soltanto tecnica, ma anche relazionale ed esistenziale.
È proprio questo che mi porto dietro, a oltre quarant’anni da quel mio primo Meeting: l’idea che il lavoro non è il posto dove si “funziona”, ma il luogo dove si diventa sé stessi. Un luogo dove si può sbagliare, ma anche imparare. Dove si è chiamati, più che a fare bene, a stare dentro l’esperienza. Con tutto quello che comporta.
E allora quei pantaloni prestati, che allora mi sembravano solo un gesto simpatico e generoso, oggi li rivedo come un simbolo del lavoro che ci attende: quello di costruire luoghi dove le persone possano “indossare” qualcosa che non è ancora loro, ma che li fa crescere. Come accade quando si è accolti, anche solo per un giorno, per un turno, per un compito imprevisto. Come accade in una famiglia. Come dovrebbe accadere ogni volta che diciamo “lavoro”.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
