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Home » Economia e Finanza » Economia Internazionale » Fed & Dollaro » COOK LICENZIATA DALLA FED/ La doppia battaglia di Trump ricorda un problema dell’Ue

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COOK LICENZIATA DALLA FED/ La doppia battaglia di Trump ricorda un problema dell’Ue

Paolo Annoni
Pubblicato 27 Agosto 2025
Lisa Cook (Ansa)

Lisa Cook (Ansa)

Trump ha deciso di licenziare Lisa Cook dalla Fed. Cresce il pressing della Casa Bianca sulla Banca centrale americana

Dopo giorni di speculazioni, ieri Trump ha licenziato Lisa Cook che dal 2022 era membro del board della Federal Reserve. La decisione, comunicata via social, si configura, secondo il Presidente americano, come un licenziamento per “giusta causa”; l’economista avrebbe infatti contratto due mutui, per due immobili diversi, a distanza di quindici giorni indicando in entrambe le richieste la destinazione di “prima casa” che garantisce costi più bassi. Da ieri Trump è nelle condizioni di controllare la maggioranza di quattro dei sette membri del board della Fed.


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Lisa Cook, dal canto suo, ha dichiarato di non aver intenzione di dimettersi e che il Presidente americano non ha l’autorità per licenziarla”. Si apre quindi una battaglia legale che avrà la conclusione in un pronunciamento della Corte suprema. È vero, infatti, che il Presidente ha il diritto di sostituire i membri del board “per causa”, come previsto dal Federal Reserve Act del 1913, ma la legge, a questo riguardo, non fornisce dettagli.


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Da mesi l’inquilino della Casa Bianca esercita ogni possibile pressione sulla Banca centrale per ottenere un taglio dei tassi a cui Powell, l’attuale Governatore, si è finora rifiutato di acconsentire. Lo stesso Powell rischia di subire un’indagine per i costi di ristrutturazione della sede della Fed lievitati oltre il budget iniziale.

Foto Ansa

Questa battaglia avviene in uno scenario che deve essere messo a fuoco. Il deficit americano è superiore a quello di qualsiasi epoca storica che non sia una guerra o una recessione con il Pil che cresce e il mercato del lavoro vicino ai massimi storici. Tutti si chiedono almeno dal 2023 cosa accadrebbe al deficit americano, oggi al 6% del Pil, in caso di recessione. Questo però è solo l’ultimo miglio di un processo iniziato almeno nel 2007 se non prima con la crisi dei mercati asiatici di metà degli anni ’90.


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Le crisi economiche e finanziarie sono state risolte con ondate di politiche monetarie espansive che hanno schiacciato i tassi di interesse a livelli innaturali, generando comportamenti opportunistici, fatto esplodere i debiti pubblici e privati e gonfiato il valore degli asset finanziari. Un dato su tutti: a febbraio del 2020, prima del Covid, il principale indice azionario americano stava a 3380 punti; a fine dicembre 2020, dopo mesi di “lockdown”, l’indice azionario chiudeva a 3750 punti. Un guadagno di oltre il 10% con interi settori economici, si pensi al turismo, in ginocchio.

Il problema è vecchio di decenni, ma esplode oggi perché la fine della globalizzazione, l’invecchiamento della popolazione e i conflitti creano uno scenario inflattivo. Più inflazione significa interessi più alti che insistono su debiti, pubblici e privati, che non sono in grado di sopportarli.

Trump alla fine otterrà quello che vuole a prescindere dall’esito legale della “vicenda Cook” o dell’indagine sulla ristrutturazione della sede della Fed. L’anno prossimo nominerà, secondo i binari di sempre, il “suo” Presidente della Fed e si creeranno quindi le condizioni per un taglio dei tassi, per l’accorciamento delle scadenze medie del debito mentre il mercato prende coscienza che il lungo periodo di bassa inflazione è finito. Il corollario di tutto questo, intanto, è il sospetto degli investitori verso le obbligazioni governative soprattutto a lunga scadenza.

Il deficit americano, già fuori da ogni scala negli ultimi due anni di presidenza Biden, non scenderà e l’ultimo piano fiscale approvato da Trump assicura un’ulteriore crescita del debito. Si chiude quindi un cerchio fatto di demografia, cambiamento degli equilibri geopolitici, e politiche fiscali che rende strutturale il problema dell’inflazione. L’incremento dei prezzi, come abbiamo imparato nelle ultime presidenziali americane, si scarica dentro la società in modo molto diverso a seconda delle fasce di reddito e inietta instabilità sociale.

Il problema diventa quindi come gestire politicamente il rialzo dei prezzi. Ciò richiede risorse da redistribuire con cui proteggere le classi più deboli, strumenti per stabilizzare i mercati e la soppressione di qualsiasi forza inflattiva non necessaria e evitabile.

Partendo dalla fine questa è la ragione per cui gli Stati Uniti hanno seppellito qualsiasi ipotesi di transizione energetica, per cui sono stati creati “stable coin” con cui supportare la domanda di obbligazioni governative e, infine, per cui si cerca di far pagare ai partner commerciali dazi a due cifre.

L’Unione europea, non sarà immune a questi processi, ma appare impreparata. Un esempio su tutti: nell’ultimo bollettino della Banca centrale europea di aggiornamento sulle previsioni economiche si legge che tra le ragioni dell’incremento dell’inflazione prevista per il 2027 c’è il nuovo meccanismo di diritti sulla CO2 dell’Unione europea. Di tutto ci sarebbe bisogno tranne che di inflazione evitabile, soprattutto se, ma questo è un altro capitolo, il costo della transizione è deciso in Cina.

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Tags: Donald TrumpInflazioneDaziEconomia USA

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