Aver avuto il coronavirus non protegge da una eventuale “ricaduta”, né ci rende immuni. Anzi, potrebbe predisporre ad una forma più grave di Covid-19, in caso di un successivo contagio sempre con Sars-CoV-2. Questo potrebbe spiegare cosa è accaduto nel Nord Italia, dove moltissimi pazienti sono finiti in terapia intensiva. Ma può anche spiegare le differenze per quanto riguarda casi gravi e mortalità con gli altri Paesi del mondo. Questa è l’ipotesi che hanno avanzato un gruppo di ricercatori italiani di varie istituzioni – dall’università di Padova all’Irccs Burlo Garofolo di Trieste – e realtà anche internazionali, come quelle britanniche. L’articolo è stato pubblicato sul British Medical Journal Global Health nella sezione Commentary. Nel testo, che vede come prima firma Luca Cegolon, gli esperti partono da un presupposto, cioè che «esistono prove che suggeriscono che il coronavirus Sars-Cov-2 fosse in circolazione in Italia prima che il primo caso di Covid-19 fosse rilevato nel Paese», soprattutto in Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte e Veneto.
COVID-19 E LO “TSUNAMI” IN NORD ITALIA
Secondo i ricercatori, le persone che hanno avuto forme gravi di Covid-19 potrebbero essersi in realtà reinfettate. Esiste un meccanismo immunologico conosciuto come “potenziamento dipendente dall’anticorpo” (Ade), che è stato osservato in altre infezioni da coronavirus (come Mers e Sars) e altri virus come West Nile e Dengue. Quindi, gli esperti ipotizzano che chi si reinfettare, dopo aver contratto Sars-CoV-2 o altri virus-coronavirus, può essere predisposto a forme più gravi della malattia. «Se confermata da studi in vivo, questa ipotesi potrebbe avere implicazioni rilevanti per il trattamento delle forme gravi di Covid-19». Un eventuale conferma avrebbe però implicazioni negative in chiave vaccino, non a caso «il tentativo di produrre un vaccino contro i coronavirus umani è fallito». Per confermare o smentire questa ipotesi che richiama in ballo il Nord Italia «serviranno più approfondite indagini epidemiologiche e immunologiche/sierologiche». Ma i ricercatori avanzano anche dei suggerimenti: in primis, sottoporre operatori sanitari e donatori di sangue a test sierologici per Covid e inserire chi presenta anticorpi Igg anti Sars-CoV-2 in un registro da tenere monitorato. L’alternativa è studiare modelli animali che vengono esposti nuovamente al virus dopo una prima infezione.