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Home » Cronaca » IL CASO/ Venire al mondo per morire: il grande “perché” di Rebecca e Lucia

  • Cronaca

IL CASO/ Venire al mondo per morire: il grande “perché” di Rebecca e Lucia

Monica Mondo
Pubblicato 8 Settembre 2011
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Foto: Imagoeconomica

Le due gemelline siamesi con un solo cuore e un solo fegato non ce l'hanno fatta. MONICA MONDO riflette sul mistero doloroso della morte dei neonati: là dove la scienza non arriva

Non ce l’hanno fatta Lucia e Rebecca, le gemelline siamesi ricoverate al Sant’Orsola di Bologna, unite dalla nascita per l’addome, con un solo cuore  e un solo fegato in comune. Cuore, fegato, dove da sempre fin dall’antichità l’uomo ha riconosciuto le sedi dello spirito vitale. Non bastavano a tutt’e  due, non era possibile, oltreché doloroso, farli pulsare per una sola creatura. La storia così rara e sconcertante ha commosso e fatto discutere il Paese, ed è un bene, che ragione e sentimento siano spronati a domandare, a brancolare nel mistero della vita, a piegarsi davanti al limite, così umanamente inaccettabile, così liberante. Si sono interrogati i migliori chirurghi, i comitati di bioetica, e noi tutti.


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Che fare? E soprattutto, siamo in grado di fare? Perché sarebbe stato bello che la scienza ci avesse promesso la salvezza per una delle due bimbe; ed era giusto sperarlo, pregare perché avvenisse, come autorevoli esponenti della Chiesa ci hanno ricordato. La vita prima di tutto, e una madre, un padre non hanno dubbi se salvare un solo figlio in una situazione tragica, o per non prendersi la responsabilità di lasciarli morire entrambi.  Non è solo istinto, è intelligenza e amore, a muovere la scelta. E se è vero che ciascuno di noi è insostituibile, ciascuno di noi è unico  e irripetibile, la sua sopravvivenza vale ogni lotta, ogni slancio. Eppure, non era possibile. Un intervento chirurgico, su corpicini così smunti e affaticati, avrebbe accresciuto il loro dolore, e avrebbe portato alla morte immediata di una sorellina, e quasi certamente alla morte successiva dell’altra. Così se ne sono andate insieme, dopo che avevano cominciato a guardarsi intono, a reagire, e avevano perfino acquistato un po’ di peso.


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Chissà la mamma e il papà, a vederle succhiare dal contagocce di un minibiberon. Che tremori, che tenerezza, che generosità, nell’affidarle al loro destino. Che fiducia, nel dono ricevuto e da ridonare, che coscienza, che quelle figlie non erano una proprietà, un diritto, l’esito di una strategia pianificata. Pochi ricordano che i genitori sapevano prima del parto indotto prematuramente lo stato delle piccoline, ma che hanno tenacemente voluto portare a termine la gravidanza e far vivere quelle bambine ricevute. E sono vissute, fragilmente vive, come qualunque bambino, benché nato sanissimo, al primo alito di vento, al primo abbandono di sua madre. Quanti sono i bambini che ci lasciano presto, troppo presto: negli ospedali, ogni giorno; in paesi lontani, dove riuscire ad afferrare la vita è un traguardo, e ogni giorno una benedizione. Quanti padri e madri si sentono dire: non è possibile, non riusciremo a salvarlo, a salvarla. Che baratro del cuore, o che supplica perché l’assurdo abbia senso e porti benedizione, ci cambi.


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Non è peggiore la sorte di Rebecca e Lucia. Che bello, i nomi di due grandi donne, che si danno la mano e  tengono unite la tradizione ebraica e cristiana di cui siamo figli; papà e mamma, parlando di loro ai fratellini che speravano di giocarci insieme, di poterle accudire, diranno loro che hanno due angioletti in cielo. Non è una banale via di fuga, è la risposta più dolce e più umana. Su questa risposta al dolore si gioca il significato del nostro essere al mondo. L’alternativa è la rabbia per un fato avverso e sconsiderato, o il cinismo.


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