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Home » Cronaca » IL CASO/ Il sogno dell’Eldorado fiscale inganna i Comuni in fuga dal Veneto

  • Cronaca

IL CASO/ Il sogno dell’Eldorado fiscale inganna i Comuni in fuga dal Veneto

Molti comuni del Veneto, soprattutto nelle zone di montagna, chiedono di far parte delle regioni confinanti. Alla base ci sono motivazioni finanziarie, non certo di identità. FRANCESCO JORI

Francesco Jori
Pubblicato 7 Dicembre 2012
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Infophoto

Non per amore, ma per denaro. La richiesta di Feltre, 20mila abitanti, il più grosso centro della provincia dopo il capoluogo Belluno, di traslocare in Trentino riaccende in modo clamoroso la grande voglia di fuga di tanti Comuni veneti verso una delle due regioni confinanti a statuto speciale; in particolare il Trentino-Alto Adige, che è un po’ più speciale, anzi parecchio, se non altro per la quantità di risorse di cui può disporre. E con questo, sono già una ventina i municipi del Bellunese che vorrebbero andarsene; oltre a otto nel Vicentino, sull’altopiano di Asiago; e uno nel Veneziano che invece guarda al Friuli-Venezia Giulia. In quasi nessuna situazione esistono motivi storici o comunque legati a vecchie tradizioni; prevale la componente economica, in ossequio al vecchio detto che l’erba (finanziaria) del vicino è comunque più verde.


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Quale prospettiva concreta di trasloco ci sia, è decisamente ardua: le procedure sono lunghe, ma soprattutto non  risulta che dall’altra parte del confine ci sia molta voglia di aprire le porte ai nuovi venuti; a parte il caso di Cortina, nei cui confronti la Provincia autonoma di Bolzano ha aperto le porte, per motivi più che lampanti e che poco o nulla hanno a che fare con le radici. E’ del resto abbastanza singolare e tutta e solo veneta, questa grande voglia di fuga dei Comuni veneti in cerca di presunti Eldorado istituzionali… Ci sarà pure un motivo se nella Lombardia (che pure confina con il Trentino-Alto Adige felix) pochissimi ci abbiano provato: capitò ad esempio con Bagolino, che peraltro rinunciò quasi subito grazie a un convincente pacchetto di interventi della Regione. E pressoché isolato è rimasto resta pure il caso del Piemonte, con Noasca, che peraltro si è visto sbattere la porta in faccia dalla Val d’Aosta.


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Quali che ne siano le ragioni, il fenomeno è specchio di due debolezze. La prima: in qualsiasi sistema, che obbedisca alle leggi della meccanica come della politica, quando si manifestano spinte centrifughe è perché al centro si sono indeboliti i meccanismi che garantiscono la coesione. La seconda: la richiesta di aggregarsi a un territorio più ricco o più protetto è una mossa di difesa non di attacco, la cui massima ambizione è quella di collocarsi nella zona grigia del «mi metto dove sto meglio».

Come molte debolezze, anche queste vengono da lontano e hanno motivazioni comunque oggettive. Pongono con forza il problema dell’equità fiscale dopo una sfibrante stagione di retorica sul federalismo. E soprattutto, mettono radici in una trascuratezza del governo del Veneto nei confronti della periferia in genere e della montagna in particolare, ereditata dai vecchi partiti della prima Repubblica: come provarono a suo tempo i consensi bulgari (tra il 70 e il 75 per cento) raccolti dalla Lega in Comuni periferici e di alta quota come Roccapietore e Foza. L’inaridirsi del paniere finanziario degli ultimi anni ha fatto il resto: con il risultato di creare – passi il gioco di parole – una montagna di problemi.


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E tuttavia, le soluzioni cercate sono illusorie: possono garantire un po’ di soldi in più a chi amministra; ma quest’ultimo dovrebbe poi spiegare a chi è amministrato quanto sbagliata sia l’idea che spostare un confine comporti solo benefici e nessun costo, illustrandogli in dettaglio ad esempio i vincoli ambientali, tariffari e urbanistici vigenti in Trentino-Alto Adige e in Friuli-Venezia Giulia. Senza contare l’indice di gradimento, anzi il suo contrario: mentre a est per Cinto Caomaggiore ci sono porte aperte (anche per oggettive ragioni storiche: il vero confine tra Veneto e Friuli era la Livenza), a Ovest i sudtirolesi hanno già detto un secco no a nuovi ingressi che rappresenterebbero il cavallo di Troia per minare il fondamento etnico della loro autonomia. E se di là non ti aprono la porta, che bussi a fare?

Certo non si può chiedere al singolo Comune, specie se ultraperiferico e in bolletta, di non farsi sedurre dai benefici materiali di un trasloco istituzionale. Ma si può e si deve chiedere alla politica di svolgere il suo ruolo di fondo, che è il governo delle differenze. La risposta vera non sta nel garantire ai municipi un po’ più di fondi per la manutenzione ordinaria del loro territorio, ma nell’investire in alleanze strategiche dell’intero Nordest, a partire dagli interessi reali della società e dell’economia, utilizzando ad esempio l’articolo 117 del nuovo titolo V della Costituzione per attivare patti di cooperazione rafforzata. Se mancherà questa capacità, i venti di fuga diventeranno monsoni. 


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