LA STORIA/ Il piccolo Jordan, una vita di pochi minuti “salvata” a Betlemme
New York. Al Columbia University Medical Center, una mamma, Lisa, è disperata perché il piccolo Jordan vedrà la luce per pochi minuti e poi se ne andrà. ELVIRA PARRAVICINI

NEW YORK — Jordan cresce ed è felice nella pancia della sua mamma, ma Lisa sa che quando il suo bimbo vedrà la luce, la sua vita sarà molto breve. Lo sa e non lo vuole ammettere, e infatti, come può ammettere che il suo bimbo vivrà solo per pochi minuti? Impossibile. Il suo infinito amore di mamma non glielo permette.
Dopo che il suo ginecologo le ha comunicato la diagnosi alla 20esima settimana — un sindrome rarissima per cui il torace e l’addome non si sono formati bene: una volta nato Jordan non potrà respirare — Lisa non si da pace.
Forse questo medico ha fatto una diagnosi sbagliata. Lisa va da un altro ginecologo che le conferma la diagnosi, poi da un terzo, e da un quarto… dicono sempre la stessa cosa.
Lisa arriva da noi al Columbia University Medical Center, per l’ennesimo consulto medico.
Prima del colloquio mi dicono che la diagnosi prenatale fatta dagli altri centri è confermata dalla nostra ecografia e mi avvertono che questa donna non ragiona, non accetta la realtà del figlio con la diagnosi letale, è impossibile farle capire, anzi non vuol capire…
Entro nella stanza per il colloquio, la saluto con un sorriso e le dico: “Sono la neonatologa, la dottoressa dei bambini, la mia missione è salvare la vita dei neonati, quando è possibile”. Liza guarda nel vuoto, ha un’espressione tristissima e dice subito “sono qui perché voglio un’operazione chirurgica che salvi la vita del mio bimbo”.
Insieme a me sono entrate l’infermiera e l’assistente sociale che lavorano con me nel team del Comfort Care, ci cerchiamo con gli occhi, e attraverso lo sguardo ci diciamo “per ora possiamo solo abbracciarla, poi forse capirà”.
Le chiediamo di raccontarci la sua storia e le speranze che nutre per il suo piccolo Jordan, e lei parla per lungo tempo, poi, ad un tratto scoppia a piangere e dice tra i singhiozzi: “Tutti i medici che ho incontrato mi hanno detto che è inutile e dannoso continuare la gravidanza perché questo bimbo è così conciato che non vale la pena per lui vivere un giorno in più. Per loro la sua vita non ha valore, è troppo brutto”.
Allora abbiamo capito. Questa mamma non è che “non vuole accettare la diagnosi”; non vuole accettare che il suo bimbo, presente, vivo, nella sua pancia, “non ha valore”.
“Siamo qui per questo!” ci diciamo, sempre attraverso lo sguardo, con la mia infermiera e la mia assistente sociale.
Dopo circa un’ora e mezza Lisa esce dalla stanza con un sorriso, nato in mezzo alle lacrime, abbiamo messo insieme un piano strategico per festeggiare la vita di questo bimbo prezioso per tutto il tempo che il buon Dio gli darà da vivere una volta nato, non un minuto in più — la medicina ha i suoi limiti e la mamma, che è infermiera, lo sa bene — ma non un minuto in meno!
La sera lascio l’ospedale e mentre guido verso casa, mi accorgo che sono piena di stupore e mi chiedo “ma cos’è successo oggi? Com’è possibile che, diversamente da altri medici, ho potuto dare speranza a questa mamma ed accogliere il suo bimbo così com’è, senza cambiare nulla, neppure la sua malattia?”
Vedo delle insegne natalizie lungo la strada e improvvisamente capisco. E’ tutto merito di un altro bambino, che è stato atteso dalla mamma con trepidazione, che ha visto la luce, è nato ed è morto prematuramente proprio come Jordan, ed è risorto per non lasciarci più. Da più di duemila anni Lui non smette mai di incontrarci per dare speranza e valore “ad ognuno di questi piccoli”.
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