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Home » Cronaca » ADOZIONI GAY/ Attenti a chi vuol “moltiplicare” le mamme ma nasconde la realtà

  • Cronaca

ADOZIONI GAY/ Attenti a chi vuol “moltiplicare” le mamme ma nasconde la realtà

Vincenzo Turchi
Pubblicato 18 Marzo 2016
giustizia_cassazione_giudiceR400

Immagine di archivio

Quasi in contemporanea all'iter parlamentare delle unioni civili, alcuni Tribunali per i minori hanno anticipato e regolato la stepchild adoption. VINCENZO TURCHI

Parallelamente e quasi in contemporanea al movimentato iter parlamentare riguardante le unioni civili, alcuni Tribunali per i minorenni hanno anticipato uno dei contenuti più discussi e controversi dell’originario disegno di legge Cirinnà — forse anche nell’intento inconfessato di dimostrarne la “fattibilità” giuridica già de iure condito — la cosiddetta stepchild adoption, che consiste nell’adozione da parte di uno dei conviventi del figlio dell’altro, anche nel caso di unioni tra persone dello stesso sesso.


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Si ricorre generalmente ad un’interpretazione estensiva dell’art. 44 della legge n. 184 del 1983, “Diritto del minore ad una famiglia”, e successive modifiche, che prevede l’adozione “in casi particolari”. Un’ultima applicazione “creativa” di questa norma si è avuta da parte del Tribunale per i minorenni di Roma, che ha concesso ad una coppia di donne l’adozione “incrociata” di due bambine, una delle quali nata da una delle due donne e l’altra dalla sua compagna, in seguito ad inseminazione avvenuta per entrambe in Danimarca. Non sto a riprendere i passaggi tecnico-giuridici in virtù dei quali il Tribunale giunge a questo risultato, profilo già autorevolmente illustrato e commentato da Lorenza Violini. Qui vorrei evidenziare come si sia cercato di costruire artificialmente un rapporto di filiazione-adozione reciproco che riproducesse (meglio: imitasse) in qualche modo i normali vincoli coniugali e genitoriali, ma con la vistosa, ineliminabile eccezione di costituire due genitori entrambi “mamma”.


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A dire il vero, il Tribunale per i minorenni di Roma non è nuovo a sperimentazioni del genere. In un’altra sentenza non molto precedente (la n. 4580 del 22 ottobre 2015) ebbe anzi a ritenere prova di riuscita integrazione familiare la circostanza che una bambina allevata da due donne chiamasse entrambe “mamma”, concedendo conseguentemente l’adozione ad una di esse della figlia dell’altra. Ma vi è di più. In quella stessa sentenza, l’organo giudicante aveva lasciato intravedere tra le righe della motivazione — e neppur troppo velatamente — l’eventualità di estendere la nozione di famiglia ad una pluralità indeterminata di figure “genitoriali”, sia per quanto riguarda il loro numero (una, due, tre, o forse più?) sia per quanto riguarda il loro sesso (uomo solo, donna sola, uomo e donna, uomo e uomo, donna e donna, eventualmente soggetti transgender? e di quale tipologia? …le combinazioni potrebbero continuare). Il Tribunale ha infatti affermato, recependo l’opinione dei giudici onorari, che «il benessere psicosociale dei membri dei gruppi familiari non [è] tanto legato alla forma che il gruppo assume, quanto alla qualità dei processi e delle dinamiche relazionali che si attualizzano al suo interno. In altri termini, non sono né il numero, né il genere dei genitori a garantire di per sé le condizioni di sviluppo migliori per i bambini, bensì la loro capacità di assumere questi ruoli e le responsabilità educative che ne derivano» (corsivo mio).


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Queste “singolari” sentenze dei giudici di merito hanno d’altra parte l’avallo della Corte di Cassazione, che in una sua pronuncia dell’11gennaio 2013 (la n. 601) ha dichiarato — peraltro apoditticamente e senza null’altro argomentare — che è frutto di «mero pre-giudizio» ritenere «che sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale». Nessun dubbio, dunque, per la Corte suprema di legittimità, circa la crescita di un bambino con due persone sessualmente “omologhe”, pertanto impossibilitate — per definizione — a rappresentare e trasmettere la realtà antropologica della differenziazione (dimorfismo) sessuale, quando invece sarebbe stato opportuno quantomeno un saggio ricorso al principio di precauzione, la cui applicazione dovrebbe trovare un luogo di elezione proprio in questioni eticamente sensibili e di notevole rilevanza, come questa.

Un’ultima considerazione. Nel “politically correct” di questi giorni, l’esistenza di pronunce “creative”, come quelle sopra riportate, è sovente chiamata a testimonianza della necessità ed urgenza di una regolamentazione legislativa della materia. Ma appare del tutto evidente la diversità della fonte invocata, con tutte le conseguenze che ne derivano. Nel caso della regolamentazione legislativa non si tratta più soltanto di “sanare” — più o meno ragionevolmente e prudentemente — situazioni pregresse e stati di fatto esistenti, ma di indicare una regola di azione valevole per il futuro, un agere licito tutelato e garantito da una norma di grado primario, un “modello” che viene additato ai cittadini come ordinariamente praticabile. E non è una argomentazione pretestuosa quella secondo cui in questo modo viene incentivata la pratica della “maternità surrogata” (cosiddetto “utero in affitto”): è questa infatti l’unica possibilità che hanno le coppie omosessuali maschili di avere figli geneticamente propri (di uno dei due conviventi). Si verrebbe altresì a creare una inconsueta nuova situazione antropologica, che ha paradossalmente come protagonista un “soggetto assente”, il bambino voluto da una sorta di desiderio prometeico di genitorialità («determinazione incoercibile», secondo la Corte costituzionale, nella sentenza n. 162 del 2014, sulla procreazione assistita eterologa), in questo caso della coppia di persone omosessuali.

Condensando in un imperativo primario la conclusione cui dovrebbe condurre la riflessione sin qui svolta, come ho già scritto in altre occasioni (Avvenire, 21 febbraio 2016; Stato, Chiese e pluralismo confessionale, www.statoechiese.it, n. 9/2016), io non esiterei ad inserire nel novero dei diritti fondamentali che naturalmente e normalmente competono ad ogni essere umano, ad ogni bambino, quello di non essere privato di una delle facoltà più belle e più grandi che ogni uomo possiede: quella di poter pronunciare, rispettivamente e distintamente, la parola “mamma” e la parola “papà”, due parole che appartengono al lessico universale dell’umanità.


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