Ai bei tempi che furono, cioè agli albori della nascita delle comunità di recupero per tossicodipendenti, Marco Pannella scatenava accuse pesantissime nei confronti di queste esperienze che hanno invece portato fuori dalla droga migliaia di persone. Parlava di lager, di centri di detenzione dove il ricoverato era privato di ogni libertà. Qualcosa di simile riecheggia, seppur con significato opposto, nelle parole della madre della povera Pamela Mastropietro che parlando della comunità dove era stata ricoverata, ha detto che “non dovevano farla scappare così, dovevano seguirla”. Silvio Cattarina, responsabile di una delle maggiori comunità di recupero d’Italia, “L’imprevisto” di Pesaro, pur rispettando tutto il dolore della madre, spiega a ilsussidiario.net che “noi facciamo di tutto perché non si verifichino gli abbandoni, ma se alla fine uno si allontana non è colpa della comunità. E’ piuttosto che queste persone sono arrivate da noi in condizioni tali che un recupero diventa impossibile”.
Cattarina, chi accusa le comunità di non sorvegliare abbastanza i pazienti sembra che invochi le catene ai letti e i poliziotti alle porte. Non è così ovviamente.
Noi facciamo di tutto affinché non avvengano i cosiddetti abbandoni, mettiamo in campo tanti aiuti e accorgimenti, però se alla fine uno si allontana non è certamente colpa delle comunità.
Nessuno può obbligare una persona a curarsi, è così?
Io capisco il dolore immenso di questa madre, però è ingiusto incolpare le comunità. C’è poi da dire che molto spesso noi accogliamo casi che da troppo tempo sono in condizioni gravissime, in cui in precedenza da parte di altri, di educatori mancati, non si è fatto abbastanza per evitare di arrivare a situazioni estreme e difficili che poi tocca a noi tentare di rimediare.
Un po’ come scaricare su di voi ogni responsabilità, è questo che intende?
Ci sono situazioni umane tropo devastate, non dico che sia il caso di questa ragazza perché non era in cura da noi, dove certi ragazzi che vengono in comunità pensano di potersi permettere aggressività e violenza, si tratta di giovanissimi che hanno vissuto nella violenza e nella prepotenza e che pensano di potersi permettere certi atteggiamenti. Se vanno via è perché pensano non possa succedergli nulla. Noi lavoriamo soprattutto con i minori e tanti di loro si permettono modalità aggressive e violente, sebbene siano giovanissimi, perché sono rimasti sempre impuniti.
Il modo con cui questa ragazza è stata uccisa, così orribile, il corpo fatto a pezzi e infilato in due valigie abbandonate in campagna, ci dice che non solo la droga è mortale, ma che intorno alla droga c’è un ambiente che sfugge a ogni bene.
La società ignora cosa c’è nel mondo della droga. C’è una tolleranza e un’impotenza ingiustificate da parte della politica e delle istituzioni. E’ un mondo pericoloso e cattivo. Io mi chiedo come mai non sia possibile fare molto di più per arginare lo spaccio e quello che c’è intorno. Certe cose, come questo omicidio così crudele, accadono perché la droga gira ormai in modo massiccio. L’ho detto tante volte: una volta si uccidevano le persone magari con un colpo di pistola, oggi si massacrano e si torturano in maniera efferata perché le persone si drogano in modo così massiccio di sostanze sempre nuove che non si rendono neanche più conto di quello che fanno.
Cosa le suggerisce un episodio così allucinante?
Il messaggio è che bisogna fare di tutto perché queste storie non comincino neanche, quando sono cominciate è molto difficile trovare un rimedio. I giovani ci cascano dentro perché cercano un affettività che non trovano, sono soli e sperduti. Il vero punto è sempre una questione educativa, non si può arrivare a situazioni così estreme, dobbiamo ingaggiare una lotta senza quartiere al disagio giovanile, a questa perdutezza che c’è nel mondo giovanile, questa mancanza di impegno e di senso.
(Paolo Vites)