La carta costituzionale italiana del 1948 occupa un posto di rilievo nella storia del diritto italiano ed europeo del ventesimo secolo. Essa appartiene, infatti, a quel momento maturo del costituzionalismo moderno che si inaugura con l’esperimento della repubblica di Weimar nel 1919 e che rappresenta una fase nuova, in perfetta coerenza con il nuovo contesto storico europeo e con le esigenze emergenti.
Il primo costituzionalismo, quello sei/settecentesco, si era infatti concretato nelle cosiddette ‘carte dei diritti’, cataloghi di situazioni soggettive del cittadino protette contro l’arbitrio del potere politico; un passo avanti rispetto a un antico regime dove non contava la singola individualità ma il ceto al quale si apparteneva, ma certamente insoddisfacenti perché – quali dichiarazioni di indole filosofico-politica – erano misurate su un modello astratto di soggetto e non su un uomo in carne ed ossa e perché portatrici di una visione angustamente individualistica della società e dello Stato.
La grandezza delle nuove Costituzioni – tra cui primeggia la nostra del 1948 – sta nella loro capacità di esprimere i valori diffusi all’interno di un popolo in un determinato momento della sua vita storica, traducendoli in un sistema organico di principii e regole. Non si trattava più delle manifestazioni partigiane di uno Stato mono/classe, bensì di un autentico Stato pluri/classe proteso a rappresentare interessi e bisogni d’una intera società.
Nella vigente Costituzione italiana abbiamo il risultato della lettura che l’Assemblea Costituente ha fatto della cifra giuridica essenziale del popolo italiano; conseguentemente, la Costituzione non pone un insieme di principi filosofici, ma, anche se nutrita di forti fondazioni filosofiche e culturali, è la norma suprema, norma intrinsecamente giuridica, posta a guida di un popolo per il suo cammino storico.
È rilevante sottolineare che essa fa sempre riferimento a soggetti e rapporti storicamente concreti. Il soggetto protagonista della Costituzione non è un modello, ma una creatura inserita nella sua complessa vicenda religiosa, sociale, economica, politica, cui fanno capo situazioni di diritto ma anche di dovere; è, insomma, un soggetto disegnato secondo una salvante etica della responsabilità. Non è un individuo insulare, ma immerso nella società in cui vive, immerso nelle comunità che la compongono, la articolano, la innervano. È creatura relazionale, cioè pensata e risolta in relazione con l’altro, con gli altri, non è individuo ma persona. Persona e comunità da cogliersi in continua e necessaria simbiosi, in rapporto di reciproca necessità.
Per questo la nostra Carta costituzionale – che è carta ma che è sicuramente qualcosa di più – non si limita (come le vecchie ‘dichiarazioni’ illuministiche) a offrire il disegno di un paesaggio virtuale, irrealizzato e forse anche irrealizzabile. Il paesaggio disegnato nei suoi articoli appartiene alla concretezza della storia, una storia dove protagonisti sono i singoli e lo Stato, ma – accanto – in posizione primaria anche le diverse formazioni sociali; dove non ci si può limitare ad affermare, come nelle vecchie Carte, la libertà e l’uguaglianza formali fra i cittadini (decorazioni di cui il povero non sa che fare e che avverte, anzi, bruciare sulla sua pelle come sostanziale derisione), ma si deve tendere a quelle effettive libertà ed uguaglianza che l’articolo 3 pone coraggiosamente fra i compiti specifici della Repubblica nata sulle rovine causate dalla guerra e dal fascismo.
Bastano – credo – queste poche righe a motivare l’invito, rivolto soprattutto ai giovani, al rispetto di uno strumento ancora validissimo, almeno nei suoi principii portanti, a guida dell’esperienza giuridica italiana contemporanea.
Il primo costituzionalismo, quello sei/settecentesco, si era infatti concretato nelle cosiddette ‘carte dei diritti’, cataloghi di situazioni soggettive del cittadino protette contro l’arbitrio del potere politico; un passo avanti rispetto a un antico regime dove non contava la singola individualità ma il ceto al quale si apparteneva, ma certamente insoddisfacenti perché – quali dichiarazioni di indole filosofico-politica – erano misurate su un modello astratto di soggetto e non su un uomo in carne ed ossa e perché portatrici di una visione angustamente individualistica della società e dello Stato.
La grandezza delle nuove Costituzioni – tra cui primeggia la nostra del 1948 – sta nella loro capacità di esprimere i valori diffusi all’interno di un popolo in un determinato momento della sua vita storica, traducendoli in un sistema organico di principii e regole. Non si trattava più delle manifestazioni partigiane di uno Stato mono/classe, bensì di un autentico Stato pluri/classe proteso a rappresentare interessi e bisogni d’una intera società.
Nella vigente Costituzione italiana abbiamo il risultato della lettura che l’Assemblea Costituente ha fatto della cifra giuridica essenziale del popolo italiano; conseguentemente, la Costituzione non pone un insieme di principi filosofici, ma, anche se nutrita di forti fondazioni filosofiche e culturali, è la norma suprema, norma intrinsecamente giuridica, posta a guida di un popolo per il suo cammino storico.
È rilevante sottolineare che essa fa sempre riferimento a soggetti e rapporti storicamente concreti. Il soggetto protagonista della Costituzione non è un modello, ma una creatura inserita nella sua complessa vicenda religiosa, sociale, economica, politica, cui fanno capo situazioni di diritto ma anche di dovere; è, insomma, un soggetto disegnato secondo una salvante etica della responsabilità. Non è un individuo insulare, ma immerso nella società in cui vive, immerso nelle comunità che la compongono, la articolano, la innervano. È creatura relazionale, cioè pensata e risolta in relazione con l’altro, con gli altri, non è individuo ma persona. Persona e comunità da cogliersi in continua e necessaria simbiosi, in rapporto di reciproca necessità.
Per questo la nostra Carta costituzionale – che è carta ma che è sicuramente qualcosa di più – non si limita (come le vecchie ‘dichiarazioni’ illuministiche) a offrire il disegno di un paesaggio virtuale, irrealizzato e forse anche irrealizzabile. Il paesaggio disegnato nei suoi articoli appartiene alla concretezza della storia, una storia dove protagonisti sono i singoli e lo Stato, ma – accanto – in posizione primaria anche le diverse formazioni sociali; dove non ci si può limitare ad affermare, come nelle vecchie Carte, la libertà e l’uguaglianza formali fra i cittadini (decorazioni di cui il povero non sa che fare e che avverte, anzi, bruciare sulla sua pelle come sostanziale derisione), ma si deve tendere a quelle effettive libertà ed uguaglianza che l’articolo 3 pone coraggiosamente fra i compiti specifici della Repubblica nata sulle rovine causate dalla guerra e dal fascismo.
Bastano – credo – queste poche righe a motivare l’invito, rivolto soprattutto ai giovani, al rispetto di uno strumento ancora validissimo, almeno nei suoi principii portanti, a guida dell’esperienza giuridica italiana contemporanea.