Volevo provare a partire da questa domanda che mi sono posta per poi dipanare un filo di pensiero: perché abbiamo questo bisogno di commemorare il ’68?
Forse perché è un tempo sospeso, che non ha avuto realizzazione?
Ma se così è, non può rimanere un fantasma che aleggia. Va riportato ai nostri occhi di oggi.
E guardato. E visto.
Non rimpianto. Non un “sogno”.
Perché si rischia solo di tramandarlo alle generazioni future come un’atmosfera inebriante che, solo in parte, ha a che vedere con ciò che, in mille sfumature diverse, ha riempito i giorni di quel tempo.
Un po’ come la Resistenza: è giunta come un “mito”, è stata comunicata come asse portante della nostra attuale vita democratica. Ma è andata veramente così? Quali e quante contraddizioni ha invece tramandato nel “taciuto”, nel ciò che non si è avuto il coraggio di affrontare entrando in quelle pieghe delle debolezze umane di cui è permeata ogni esperienza?
Tutti noi che apparteniamo ad una “generazione precedente” abbiamo delle responsabilità nei confronti delle generazioni successive: passiamo un testimone di un’esperienza. E abbiamo il dovere dell’onestà intellettuale nel raccontare ciò che abbiamo veramente visto: il più possibile la realtà, non l’idea di ciò che avremmo voluto fosse.
Cosa abbiamo respirato?
Il sapore della libertà. La vita spogliata da tutte le ipocrisie presenti in famiglia. Nella scuola. Nel consorzio civile.
Il re, il potere arrogante, apparve nudo ai nostri occhi. Ci si ribellò a tutto ciò che rappresentava l’autorità perché basata su vuote convenzioni sociali. Su imposizioni più che su contenuti.
Si iniziò così, cercando di inventarsi forme alternative alla soffocante vita già preconfezionata che ci aspettava. Come donne: il matrimonio, i figli, la conduzione della casa. Come uomini: il lavoro, il matrimonio, i figli e forse l’acquisto di una casa dopo una vita di sacrifici.
Cacciammo un urlo in quel silenzio assordante delle consuetudini e quell’urlo liberò la fantasia e la voglia di vivere.
Occupammo case e cascine abbandonate per poter condividere un’esperienza di convivenza allargata, per poter dialogare a tutte le ore del giorno e della notte, far musica, dipingere, fare l’amore.
Si andava e si veniva. Chi arrivava aveva sempre a disposizione uno spazio di accoglienza e un piatto di pasta.
Si sperimentò l’assenza della proprietà privata sia materialmente (tutto era di tutti), che affettivamente (nella coppia non doveva più esserci il senso del possesso, né, conseguentemente, la gelosia).
Non ci dovevano più essere differenze tra i sessi, né di estrazione sociale o di pelle. Nella scuola il 6 politico sancì l’uguaglianza di tutti di fronte alla cultura. Ognuno valeva la “sufficienza” perché dava secondo le proprie capacità senza più criteri meritocratici.
Fu una sperimentazione a 360 gradi ma, come diceva Lorenz, ogni rivoluzione ha in sé ancora i germi della fase precedente e tali elementi pesarono più di quanto noi non pensassimo.
Non tenemmo conto di essere impregnati di classismo, di senso del possesso, di leaderismo. Pensammo di essere già diversi per il solo fatto che ci ponevamo “contro” un sistema.
Così, ad esempio, nella condivisione della casa c’era chi non faceva mai nulla, chi non puliva gli spazi comuni, chi privilegiava il lavoro intellettuale a scapito del lavoro manuale.
Nelle discussioni collettive il ruolo di subordinazione della donna rispetto all’uomo era tanto evidente quanto frustrante. Ma anche le personalità più timide e problematiche di sesso maschile venivano schiacciate da coloro che più che sviluppare il senso del gruppo sviluppavano il culto della personalità.
La liberazione sessuale più che elevare la qualità dei rapporti riportando i partner sullo stesso piano del rispetto e del piacere ne aumentò semplicemente la quantità.
E, all’interno delle coppie, pur teorizzando a parole la libertà di entrambi, ci si struggeva di gelosia.
Il famoso 6 politico, anziché sviluppare le capacità di ciascuno, perché non più sottoposto a giudizio ma lasciato libero di esprimersi, divenne un moda per deresponsabilizzarsi.
Tutta questa sperimentazione, già di per sé contraddittoria, che necessitava di una più lunga ed approfondita pratica, venne ad un certo punto convogliata nell’imbuto della logica politica che spostò le energie dal “modello alternativo di vita” alla logica della “guerra”, dove c’é un nemico da abbattere per conquistare il potere.
A questo proposito mi sembra significativa questa esperienza, che vorrei citare per intero: «Sono critica nei confronti dei movimenti del ‘68 a cui pure ho partecipato. Ricordo che, prima di quell’anno, la ribellione giovanile si esprimeva attraverso altri pensieri, altre forme, come il movimento beat o quello hippy che, nel contestare il perbenismo ipocrita di quell’epoca, cercavano, unicamente, un “modo di essere”.
Poi ci fu il ’68. Che fu tutta un’altra cosa.
Fu come uno strozzamento che costrinse tutto, emozioni, rabbie, sentimenti, speranze, aspirazioni, spiriti artistici dentro la logica della politica: si iniziò a vedere la figura del nemico e la necessità di doverlo attaccare, di doversi contrapporre.
Come sia successo tutto questo non credo che nessuno possa mai ricostruirlo. La mia storia personale mi fa ricordare, poco prima del ’68, l’America come primo nemico, per la guerra in Vietnam: sono molto giovane e sono a fianco di mia sorella che milita nel Pci.
Dal Pci, sull’onda di questa politica antiamericana, iniziarono a nascere delle piccole scissioni, cioè dei piccoli gruppi il cui nodo divergente di fondo fu l’uso della violenza: a violenza si può rispondere solo con la violenza.
E immediatamente dopo esplose il ’68 con le università in subbuglio e poi il ’69 con le fabbriche in rivolta. Alla fine del ’69 la strage di Piazza Fontana che esasperò ancora di più gli animi, generando contemporaneamente una sorta di paura collettiva.
Il passaggio é veloce ed in questo passaggio si perde la positività dei movimenti precedenti. Concretamente: mentre prima si scrivevano poesie, si cercava un’altra pittura, un’altra canzone per esprimere i propri sentimenti, ora invece ci si rifà a dei modelli di pensiero già esistenti e vecchi, a delle rivoluzioni già avvenute. È un impoverimento totale della creatività e della fantasia. Ma avviene.
Per me che l’ho vissuta é faticoso oggi accettare di aver compiuto questo passaggio senza rendermene conto».
Nella logica del “contro” le energie creative si ripiegarono su se stesse e si atrofizzarono. Lasciarono il posto ad un meccanismo più semplice ma più povero: la distruzione del nemico come Altro da sé e la riproposizione del sé come il Giusto.
Questo é ciò che di negativo, a mio parere, abbiamo lasciato in eredità a questa società. Eredità scomoda che ha manifestato tutta la sua inadeguatezza e pur tuttavia costituisce ancora un modello culturale che ci ha seguito fino ad oggi: la logica della contrapposizione. Soprattutto politica.
Sarebbe tempo di andare oltre questo “contro” per recuperare il “per” iniziale che, nella liberazione della fantasia, rimetta in circolo la passione per il nuovo, per l’osare, per la sperimentazione.
Con una marcia in più rispetto ad allora che è l’umiltà, ovvero la consapevolezza del limite di ogni esperienza in quanto umana.
Un “per” che, con un colpo d’ala, faccia fare il salto di qualità: dalla logica della “contrapposizione” a quella dell’“incontro” dove l’Altro non è “nemico” ma “diverso” e contemporaneamente “fratello nelle debolezze”.
Solo così, credo, il ’68 potrà sentirsi come “passato costruttivo” dentro il presente.
(Aere Clara)