Due fatti sono accaduti a pochi giorni di distanza. Apparentemente senza un rapporto diretto. Il primo, il 3 novembre, riguarda l’Italia: la sentenza della Corte europea a proposito del crocefisso nelle scuole pubbliche. Il secondo, il 5 novembre, riguarda la Francia: il ministro dell’immigrazione, Eric Besson, ha lanciato una campagna consultiva centrata sulla seguente domanda. «Cosa vuol dire essere francesi, oggi? Quali sono i tratti che caratterizzano l’identità francese?».
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Tra i due fatti c’è una certa simmetria. Non voglio tornare qui sulla decisione della Corte europea, ma mi colpisce la motivazione addotta. La Corte non vede come «esporre nelle aule delle scuole pubbliche, un simbolo […] associato al cattolicesimo […] possa servire al pluralismo educativo che è essenziale alla preservazione di una “società democratica”». È chiaro che con una tale motivazione chi ha vinto il processo non é tanto la signora Lautsi o la sua sete di trovare giustizia, bensì il principio della “laicità” alla francese.
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La sentenza è coerente perché dice che «l’obbligo di esporre un simbolo di una data confessione in un esercizio pubblico […] in particolare nelle aule, ristringe il diritto dei genitori di educare i loro figli […] e del diritto di bambini di credere o non credere».
Ma proprio nei giorni scorsi, nella patria della laicità, ci si è resi conto che a forza di togliere e tagliare, ridurre e censurare, sciogliere e abrogare tutto il religioso possibile perché la libertà dell’individuo non sia ostacolata da retaggi che limitano la libera scelta del cittadino, si é giunti al punto di non capire più che cosa vuol dire essere se stessi: appunto francesi. Il sentirsi parte di una nazione (non dico patria perché apparirebbe un linguaggio caro a Pétain) cosa significa? Quali “tratti” deve avere una persona che voglia sentirsi francese?
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Venerdì 14 novembre, a distanza di pochi giorni da una festa nazionale (la fine della prima guerra mondiale), il presidente Sarkozy, invece di fare un discorso di circostanza, ha affondato il coltello nella piaga. Ha posto una domanda che cela più che esprimere una certa preoccupazione: «A forza di abbandonare, siamo finiti col non sapere più molto bene chi eravamo. A forza di coltivare l’odio di se stessi, abbiamo chiuso le porte del futuro […] Sarebbe pericoloso non parlarne, far finta che tutto vada bene […] Facendo la politica dello struzzo, lasciamo il campo libero a tutti gli estremismi». Sono le parole di un Presidente della Repubblica francese, non di un inquieto intellettuale della “rive gauche”. E di fronte a un simile discorso viene da chiedersi: ma che cosa abbiamo in realtà “abbandonato”? Che cosa può far nascere “l’odio nei confronti di sé stessi” e, quindi, lasciare il campo libero a tutti gli “estremismi”?
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La breccia aperta dalla sentenza europea conduce ad una situazione dove la domanda di Sarkosy diventa drammaticamente necessaria. Togliere il crocefisso non é solo eliminare un simbolo religioso, ma creare un vuoto di coscienza, soprattutto per i non credenti. Perché è eliminare qualcuno/Qualcuno che è storia, tradizione cioè alterità da se stessi. Come possiamo decidere di essere “noi stessi”, se non c’è più nessuno di fronte a noi, se manca ogni proposta che ci venga da una lunga storia?
La sentenza ha molto il sapore dei “lumi”; di quella posizione intellettuale secondo la quale solo smussando ogni differenza si potrebbe raggiungere un astratto “universale”. Ma poi proprio questo universale si dimostra vuoto. La storia del cristianesimo ha invece mostrato che le differenze sono una ricchezza e che ogni diversità può trovare spazio nell’unica “cattolicità”. Certo, questo implica la disponibilità ad aprirsi all’altro fino alla rinuncia di sé. Ma – come le domande del ministro e del presidente francesi dimostrano – non c’è alternativa a questa dinamica, se non una piatta società fondata su puri principi giuridici o politici. Oppure un cosmopolitismo morale, di fatto deciso da chi ha il potere di imporre principi morali o pseudo tali.
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(Silvio Guerra)