Le testimonianze che nel corso del Cinquecento concernono la venerazione della Sindone, conservata prima a Chambéry poi a Torino, lasciano scorgere i diversi modi in cui i visitatori percepivano l’oggetto e il suo contenuto: una visione distanziata, quale era concessa ai comuni fedeli nelle ostensioni pubbliche, ed una ravvicinata, in certo senso riservata, attraverso la quale alcuni potevano scrutare quel contenuto e trarne una più precisa e personale esperienza.
Mediazioni di vario carattere potevano aiutare le rispettive percezioni: dalla narrazione della Passione di Gesù offerta dai Vangeli e dai trattati di meditazione, alla predicazione di chi presiedeva alle ostensioni, dalla liturgia dell’ufficio e della messa della Sindone (approvati dal papa Giulio II nel 1506), alla letteratura che tra il Cinque e il Seicento crebbe attorno alla “spiegazione” della Sindone; per non dire delle immagini grafiche e delle pitture che rappresentavano il sacro lenzuolo e la sua impronta, nonché delle copie più o meno fedeli, dipinte su tela, che in quel tempo furono tratte dalla Sindone e diffuse nel mondo cattolico.
A capire come la Sindone, allorché era conservata dai duchi di Savoia nella Sainte Chapelle del castello di Chambéry, fosse presentata alla pubblica venerazione può giovare la relazione che Antoine de Lalaing rese attorno all’ostensione avvenuta a Bourg en Bresse, nel 1503, per accontentare Filippo il Bello, fratello della duchessa di Savoia Margherita d’Austria. Il sacro lenzuolo era retto da tre vescovi su di un palco costruito sulla piazza del mercato.
Un predicatore francescano accompagnò la cerimonia con due sermoni, uno privato per i principi e l’altro per il popolo. Dalle parole del Lalaing, che dinanzi alla Sindone proclama «tra le cose devote, mi pare la cosa più devota e contemplativa che vi sia sulla terra», si intende che il predicatore , attingendo a temi e a modi tipicamente francescani, comunicava agli astanti una rappresentazione mentale e suggestiva della passione di Cristo, che in vario modo doveva riversarsi e oggettivarsi nella contemplazione del sacro lino e delle sue tracce sanguigne.
Una tale mediazione doveva guidare e in certa misura acuire la percezione dell’immagine sindonica anche per chi non vi si poteva avvicinare ed è probabile che per i comuni spettatori l’ostensione anche lontana dell’oggetto, della reliquia, bastasse a suscitare forti emozioni. Con quale animo persone di esercitate attitudini spirituali, nutrite di una perdurante pietà tardomedievale, reagissero a una visione ravvicinata della Sindone è invece attestato, nel 1534, da un’altra relazione, offerta dalle suore di Santa Chiara di Chambéry. Costoro, incaricate di riparare il sacro lenzuolo leso due anni prima dall’incendio della Sainte Chapelle, mentre lo rammendano vi scorgono come in trasparenza l’impronta di tutte le sofferenze patite da Cristo che i trattati attribuiti a san Bernardo e a san Bonaventura, e segnatamente le Meditationes vitae Christi dello pseudo Bonaventura, nonché la Vita Christi di Ludolfo il Certosino, avevano enumerato e raccontato per proporre la Passione alla contemplazione immaginativa dei devoti.
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E quando la visione del lino, dispiegato su di un telaio nel coro della chiesa, fu consentita alla folla accorsa, tra cui erano dei pellegrini reduci da Roma e da Gerusalemme, «il popolo gridava a gran voce “Misericordia!” con inesprimibili sentimenti di devozione». Una tale esclamazione doveva essere abituale dinanzi a rappresentazioni impressionanti della passione del Redentore, tali da suscitare nei fedeli, atterriti dalle sofferenze causate anche dai loro peccati, l’invocazione del perdono divino: è sintomatico, per esempio, che sulla scena della Passione che si rappresentava a Roma nel Colosseo, gli astanti prorompessero nella stessa esclamazione allorché la Veronica mostrava loro il panno in cui Gesù aveva impresso il suo volto.
Ma ciò avvennne anche quando, nel 1578, il duca Emanuele Filiberto fece trasferire la Sindone da Chambéry a Torino per favorire Carlo Borromeo, che aveva intrapreso un pellegrinaggio a piedi, da Milano, per venerarla (il pellegrinaggio e le cerimonie conseguenti furono divulgate in una lettera a stampa del gesuita Francesco Adorno).
La reliquia fu mostrata dal cardinale e da quattro vescovi sopra una loggia allestita dinanzi al palazzo ducale a «una gran moltitudine d’huomini et donne», e questi, «vedendo il sacro Sudario, gridavano con gran devotione: Misericordia». La Sindone fu poi trasferita nella cattedrale, dove si tenne la cerimonia delle Quarant’ore: il Borromeo e altri ecclesiastici si avvicendavano nel tenere ogni ora una predica tra l’affluire di parrocchie e confraternite che convenivano in processione. Agostino Cusano, che accompagnava Carlo Borromeo, sottolinea una significativa coincidenza simbolica: si fece «l’oratione delle 40 hore continue giorno e notte conforme al tempo che il nostro Salvatore stette involto e sepolto in quella Sindone».
Non conosciamo il contenuto dei sermoni svolti in quell’occasione dal cardinal Borromeo, ma possiamo immaginare che egli, così come più tardi nelle omelie da lui tenute nel duomo di Milano durante la quaresima, mirasse a indurre nei suoi uditori una persistente immedesimazione nei sentimenti e nelle sofferenze del Redentore come via alla conversione personale e all’imitazione di Cristo.
E non mancarono altri sviluppi. Terminata la cerimonia, il giorno dopo, con una nuova ostensione, il Duca, avendo inteso che molti suoi sudditi valdesi erano venuti dalle valli di Perosa e di Luserna per vedere il cardinal Borromeo, volle che si prolungasse l’orazione delle Quarant’ore con altri sermoni «per vedere se si fosse potuto fare qualche acquisto nella conversione di quei popoli e il cardinale nostro continuò a ragionare per spacio di quasi due hore, con silentio et attentione grande e mirabile in tanto concorso».
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Ma quale fu l’esperienza di coloro che in questa e in successive occasioni poterono scrutare dappresso il sacro lenzuolo? L’Adorno racconta che una sera la Sindone fu mostrata riservatamente ai membri della famiglia del Cardinale: questi con «singolar reverenza et humiltà stava a piedi della sacra imagine, di dove mai si mosse» fin che non fu riposta. Altri rendono conto dell’impatto che l’immagine impressa sulla Sindone ebbe su di loro allorché seguirono il Borromeo a Torino per le ostensioni del 1578 e del 1582. Per il Cusano «la figura tutta è assai oscurata, et come di un’ombra nera o come di primo abbozzo di pittura che hora si vede, hora non si vede, e genera maggior desio e diligenza di rivederla meglio».
Nel 1582 Alfonso Paleotti esamina con acume appassionato l’immagine impressa nella Sindone traendone originali osservazioni sulle modalità della crocifissione di Gesù, osservazioni che in una prima stampa della sua Esplicatione del sacro lenzuolo (1598) apparvero tanto innovative rispetto alla rappresentazione tradizionale (specie quanto ai chiodi, infissi nei carpi e non nelle palme delle mani) da indurre l’autore a ometterle in parte, in attesa che una superiore ispirazione ne favorisse l’accoglimento: ad ogni modo la sua opera e l’illustrazione che l’accompagnava ebbero ampia risonanza in varie traduzioni e rielaborazioni, nonché nel trattato di Jean Jacques Chifflet De linteis sepulcralibus (Anversa 1624).
Sempre nel 1582, il segretario e seguace di Carlo Borromeo Carlo Bascapè, scrivendo ai suoi confratelli barnabiti dei sentimenti in lui suscitati dalla reliquia, osserva che neppure il pellegrinaggio al Santo Sepolcro di Cristo può togliere valore a quello della Sindone torinese, «dove è posto un ricetto più intimo di quelle membra divine che non fu il sepolchro; et che, oltra a ciò, rappresenta la forma loro, et le sue acerbissime passioni, et ancor si vede rosseggiare del suo sangue pretioso». E dichiara che «quei vivi color, che dalle cose stesse di vere e non finte forme impressi rimasero […] passando per gli occhi recano al cuore veraci e vive figure di ciò che rappresentano».
In queste espressioni si possono già ravvisare gli intendimenti di mistico realismo che guidarono lo stesso Bascapè, divenuto vescovo di Novara nel 1593, nel promuovere e dirigere sistematicamente nuove rappresentazioni plastico-pittoriche nelle cappelle del Sacro Monte di Varallo, da lui riformato e integrato quale coinvolgente teatro della vita e passione di Cristo. Lo stesso Bascapè ricorda, nella biografia del suo maestro, che questi nel 1578 «compì una diversione al monte di Varallo per contemplarvi ancora, con rinnovata meditazione, pur da lontano, dinanzi alle immagini di quel luogo che rappresentano i patimenti del Signore, la stessa miserevole figura che nel sacro lenzuolo ne restituisce così atrocemente tutte le ferite e i tormenti»
E ancora nel 1584, di ritorno dal pellegrinaggio a Torino, Carlo Borromeo si raccolse per qualche giorno, prima della morte, sul monte di Varallo, dove pensava anche a una riforma di quelle cappelle, che ne facesse un più adeguato strumento di catechesi e di meditazione. Invero, lo stesso pellegrinaggio supplementare da Torino a Varallo non era ignoto a comuni fedeli, come quelli che lasciarono traccia del loro passaggio in un graffito della cappella della Crocifissione, dopo essersi recati a prendere la “perdonanza di Piemonte”, cioè l’indulgenza concessa dal papa per l’ostensione della Sindone nel 1582.