L’ultimo Roth è il capitolo conclusivo del quartetto della “Nemesi”. Dopo Everyman, Indignazione, L’umiliazione ecco Nemesis, novella in perfetto equilibrio tra tragedia e Camus, Sofocle e reportage, Edipo e l’indimenticabile svedese Levov, protagonista di quella Pastorale americana che nel 1997 valse all’autore il premio Pulitzer. Nemesis può voler dire indignatio oppure vendetta, entrambi i significati riferendosi all’ingiustizia divina che scriteriata distribuisce buona e cattiva sorte nell’universo. Il solito Roth insomma, e, come nota Coetzee, il solito spunto di partenza: «In che modo può ancora funzionare la logica della giustizia dopo che vaste forze universali s’intrecciano con le singole, individuali traiettorie di una vita umana?»
Al centro della vicenda c’è l’epidemia di polio che dilagò in America, e nel mondo, durante l’estate del 1944, quando cioè la Seconda guerra mondiale stava ormai per finire. Al centro dell’epidemia c’è invece Bucky Cantor, rimasto a casa perché la vista difettosa gli ha impedito di partire soldato. Al contrario dei suoi amici, tutti eroi del D-Day, Bucky è solo l’insegnante di educazione fisica in un campetto sportivo a Newark, dove ragazzini appena adolescenti passano i mesi estivi. Non nazisti e giapponesi dunque sono i suoi nemici, ma nientedimeno che la polio e l’epidemia che comincia a paralizzare e uccidere alcuni suoi allievi, fatalmente i migliori.
Mr. Cantor è uomo buono e con nobile senso del dovere: non potendo servire la patria in guerra, sente di doverla aiutare a casa, e rimediare così all’umiliazione di essere qua e non là. La sua nuova missione diventa dunque proteggere quelle vittime indifese contro la malattia, rispettando fino in fondo le responsabilità di maestro e uomo. Inutile dire che la battaglia è persa sul nascere contro un nemico invisibile che nella testa di Bucky assume ora i connotati biologici di un virus ora quelli metafisici di Dio ora quelli nichilistici del Caso.
La possibilità di una nuova partenza, che vorrebbe dire sì salvezza da un contagio sicuro ma anche tradimento di sé e dei ragazzi, vuol dire nell’immediato scelta tra bene comune o privato. Ma l’ironia sadica del vecchio Roth è come sempre dietro l’angolo e la decisione, qualunque essa sia, aziona la catastrofe.
«Ecco un uomo che non è stato programmato per avere sfortuna, e ancora meno per l’impossibile. Ma chi è pronto ad affrontare l’impossibile che sta per verificarsi? Chi è pronto ad affrontare la tragedia e l’incomprensibilità del dolore? Nessuno. La tragedia dell’uomo impreparato alla tragedia: cioè la tragedia di tutti». Tratto da Pastorale americana, il brano s’adatta perfettamente anche a Bucky: “allenato” per un nemico, ne deve affrontare invece un altro, imprevisto e di tutt’altra natura.
Con Nemesis il cerchio si chiude e oltre allo Svedese ricorrono temi e protagonisti di lavori precedenti. Torna, tanto per cominciare, la memoria corrosiva dell’errore passato, della «cosa inaspettata» che ha per sempre cambiato, distruggendo, la vita del protagonista.
Il soldato Messner di Indignazione è l’insolito narratore che racconta la sua storia dall’oltretomba, costretto per l’eternità a lasciarsi perseguitare sempre dagli stessi fantasmi: «non sapevo che non solo l’aldilà non era privo di ricordi, ma che i ricordi sarebbero stati tutto. Non ho neppure idea se il mio ricordare si trascini da tre ore o da milioni di anni. Qui non è la memoria che cade nell’oblio, ma il tempo […]. Non ci sono giorni. L’unica direzione (per ora?) è all’indietro. E il giudizio non ha mai fine, e non perché ci sia una divinità a giudicarti, ma perché le tue azioni vengono per tutto il tempo assillantemente giudicate da te stesso».
È questo stesso giudizio senza fine che condanna à rebours, questa volta già in vita, Bucky Cantor a un’esistenza di rimpianti, rimorso e auto-inflitto, infinito castigo. La memoria di una colpa assurda, forse sua, forse non sua, quindi del caso, svuotano l’uomo del giusto, umano, senso dei propri limiti. Perché, come dice l’attore Simon Axler al suo analista in L’umiliazione: «Niente ha una valida ragione per succedere […]. Perdere, vincere, è tutto un capriccio. L’onnipotenza del capriccio. La probabilità dell’inversione. Sì, l’imprevedibile inversione e il suo potere». L’uomo di Roth vuole essere la ragione di tutto ma, volente o nolente, non è la ragione di niente.
Autore amato e odiato Philip Roth ha diviso il pubblico americano anche con Nemesis, che al pari delle ultime novelle è sembrata ad alcuni soltanto sfiorare senza approfondire le vaste questioni che suscita. Coetzee su The New York Review of Books parla, dopo ampia analisi, di un «Roth minore»: troppo evidente la sua artificialità e debole invece il suo coinvolgimento nella materia. Tayler sul Guardian ne apprezza invece lo stile «giocoso e sereno», mentre Kakutani sul New York Times ne segnala la «prevedibilità» e l’asciuttezza eccessive. Ma sono proprio sintesi, chiarezza e semplicità i pregi che fanno funzionare trama e stile. L’atmosfera canicolare, il panico, i perché? di Bucky, la felicità che cresce apposta per collassare, la perfezione vista, toccata e poi perduta. Sono tutti passaggi che costruiscono l’ennesima, cinica indagine sull’uomo e la sua volontà, presa per i fondelli dalla Fortuna.
Il grande merito di Roth è ancora una volta quello di accostare il respiro astratto di stupori metafisici con quello tutto concreto dei corpi, ritratti nel pieno del vigore agonistico e, alla fine della parabola, sconfitti, deformi, decaduti.
(Riccardo Antonangeli)