L’11 aprile 1961 si apre a Gerusalemme il processo ad Adolf Eichmann, il gerarca nazista che ha avuto un ruolo centrale nella deportazione degli ebrei verso i campi di sterminio. Al termine delle 120 sedute del processo, l’imputato è dichiarato colpevole e condannato a morte. A seguire il processo, come inviata del settimanale New Yorker, c’è anche Hannah Arendt, la pensatrice ebrea che ha già pubblicato nel 1951 un monumentale studio su Le origini del totalitarismo dedicato al nazionalsocialismo e al comunismo staliniano. Il resoconto del processo e le acute considerazioni su di esso escono prima a puntate sul settimanale e sono poi ristampati nel 1963 nel volume dal titolo Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil. L’opera, come spesso accade a quelle della Arendt, non manca di suscitare polemiche.
Non è questa la sede per addentrarsi in discussioni storiografiche, basti però ricordare che la “banalità” di cui parla l’autrice non è quella dell’atroce male compiuto, che ella non intende affatto minimizzare o tantomeno “giustificare”, ma quella della persona che ha compiuto il male. Andando a Gerusalemme la Arendt pensa di trovarsi davanti un efferato e titanico “mostro” accecato dall’odio e invece si trova di fronte un imputato che ad una perizia psichica è risultato “completamente normale” e che appare un uomo qualunque, banale, un pagliaccio che parla per frasi fatte e giustifica più volte il suo operato dicendo di essersi limitato ad eseguire gli ordini.
Di Eichmann, secondo la Arendt, si può anche dire che è un “idealista”, in un senso molto particolare: «Essere “idealisti” secondo Eichmann, non voleva dire soltanto credere in un’“idea” oppure non rendersi rei di peculato, benché questi requisiti fossero indispensabili; voleva dire soprattutto vivere per le proprie idee (e quindi non essere affaristi) ed essere pronti a sacrificare per quelle idee tutto e, principalmente, tutti».
Arendt ha già denunciato il contenuto ideologico dei totalitarismi nell’opera del 1951 dove mostra che l’attaccamento acritico ad un’ideologia è la matrice su cui si fondano i regimi. Le ideologie, che altro non sono se non idee che pretendono di racchiudere tutta la società e la storia in un sistema, semplicemente non sopportano la realtà che porta in sé il senso del limite. Siccome senza realtà non si può vivere, o almeno non lo si può fare troppo a lungo e in modo troppo sano, i regimi finiscono per creare un’altra realtà che dia coerenze ad un mondo, come quello della Germania dell’epoca, che sembra ormai aver perso ogni barlume di significato.
In La banalità del male Arendt osserva questi fenomeni non da un punto di vista generale, ma dal punto di osservazione di un individuo, Eichmann, che non esita a collaborare con le azioni più criminose limitandosi, egli dice, a svolgere una piccola mansione in un progetto molto più grande, di cui finisce addirittura per perdere il senso e la portata (un po’ come si trattasse di una tragica divisione del lavoro nella catena di montaggio del terrore e della morte).
La lettura della Arendt lascia inquieti: da una parte, anche le persone normali o addirittura banali non possono dirsi immuni dalla tentazione del male, anche dei più efferati, dall’altra le ideologie sono tentazioni costanti nella storia umana e, pur mutando di colore e di contenuto, possono sempre affacciarsi e condizionare radicalmente la vita sociale. Le idee sono un bene prezioso della vita individuale e sociale ma possono anche diventare una gabbia che non lascia spazio alla novità e alla imprevedibilità di cui, volenti o nolenti, è intessuta la storia umana. In conclusione, le riflessioni della Arendt sul caso Eichmann hanno non solo il valore di una testimonianza storica, su cui peraltro il dibattito è ancora molto acceso, ma hanno anche il significato di un monito per il presente.
(Paolo Terenzi)