Ragionare del giusto in ambito politico sembra paradossale di questi tempi. Ciò è tanto più urgente se la questione viene affrontata a partire dal suo contrario, l’ingiusto. L’esperienza dell’ingiustizia infatti si pone e si è posta sempre come la principale motivazione dell’impegno politico. Ne parliamo con Sante Maletta, docente di filosofia politica nell’Università della Calabria e membro dell’Associazione Prologos, autore del volume Il giusto della politica. Il soggetto dissidente e lo spazio pubblico (Mimesis 2012).
Sin dalle prime pagine si trova affrontata la questione della giustizia a partire dall’esperienza dell’ingiusto. Quella del giusto (dell’essere umano giusto) non sembra essere una dimensione intimistica. Riguarda piuttosto la natura e il funzionamento dei rapporti sociali, e indica un ideale che opera nella quotidianità dei legami interpersonali.
Si tratta di una consapevolezza che è sempre rimasta viva sino all’inizio della modernità politica, quando si è cominciato a immaginare un ordine sociale capace di reggersi su basi diverse dalle qualità morali dei singoli. In altre parole, a partire dal Seicento in poi la questione diventa: come possiamo vivere in maniera ordinata e non troppo ingiusta dato per scontato che gli uomini sono cattivi? Ciò che determina il comportamento pubblico degli individui sono infatti le loro passioni egoistiche. Da allora, per parafrasare T.S. Eliot, si sono cominciati a immaginare sistemi talmente perfetti all’interno dei quali agli uomini non fosse più richiesto di essere buoni.
Ecco il legame con i totalitarismi novecenteschi, i quali hanno cercato di dare corpo a tale utopia producendo il suo opposto, la dis-topia, l’utopia negativa di sistemi sociali fondati sul terrore e la menzogna. Leggendo il libro, però, non sembra che le liberaldemocrazie capitalistiche ne escano tanto bene… In fondo noi viviamo un’epoca in cui l’esperienza dell’ingiustizia coinvolge strati sempre più ampi della popolazione accompagnandosi a un senso crescente di impotenza. Oggi non sappiamo neppure contro chi lottare, dato che il sistema capitalistico avanzato funziona in modo da occultarle responsabilità dei singoli. La cause della speculazione, della crisi, dell’impoverimento delle masse sono concepite come fenomeni “naturali”, come il vento e la pioggia, e comunque sono sempre altrove.
L’esperienza di ingiustizia oggi coinvolge anche il ceto medio nella forma dell’esclusione. Esclusione dalle scelte fondamentali sulla vita, il lavoro, l’educazione, la salute, la morte. Scelte che vengono prese da organismi internazionali, eletti, ma opachi rispetto al controllo dell’opinione pubblica (ammesso e non concesso che questa esista ancora) e animati da logiche economicistiche, se non meramente finanziarie. I nostri parlamentari svolgono gran parte della loro misera attività istituzionale nel ratificare provvedimenti e raccomandazioni di organismi internazionali più o meno misteriosi agli occhi dell’uomo della strada. La chiamano (con un eufemismo degno della neolingua orwelliana) governance.
Quindi si tratta di una reificazione dell’essere umano più subdola di quella all’opera ai tempi dell’industrializzazione selvaggia o nei regimi totalitari. Qui il ruolo giocato dal giusto sembra ancora più radicale, perché il giusto indica la via di un’ascesi individuale che però appare debole, addirittura impotente di fronte alla logica funzionalistica imperante.
Il giusto è impotente per definizione perché non cerca di oppore un potere buono a un potere cattivo. La strategia del giusto non è rivoluzionaria e nemmeno riformistica (anche se non disdegna un impegno politico capace perlomeno di mitigare l’ingiustizia). Questa è la grande lezione dei dissidenti come Vaclav Havel, Jan Patočka. Aleksandr Solzenicyn. La questione da cui nasce il dissenso non è politica ma culturale, esistenziale. Come vivere da uomini qui e ora? I dissidenti pongono al centro i bisogni umani che, anche quando sono bisogni materiali, portano sempre con sé un’esigenza di senso. La loro “piattaforma” di cambiamento coincide con la creazione di legami sociali capaci di farsi carico di tale esigenza culturale ed esistenziale. Il loro “progetto” si realizza attraverso la creazione di realtà comunitarie che interagiscono con la logica sociale imperante (da cui nessuno può tirarsi miracolosamente fuori) confrontandosi e rilanciando desideri di autenticità, di verità nei rapporti e nelle scelte.
Una debolezza che sembra quasi una risorsa.
Certo, perché chi agisce considerando i bisogni reali, anche se non ha un’incidenza politica immediata, ha dalla parte sua il “cuore” umano, che è identico in tutte le epoche e latitudini. Inoltre non si pone in un atteggiamento utopistico. La vita non è “altrove”, come nelle prospettive rivoluzionarie, ma è ora. I dissidenti erano convinti che non avrebbero mai visto la fine comunismo, ma non per questo rinunciarono a vivere da uomini. A un’amica che gli chiedeva quando sarebbero stati finalmente liberi, padre J. Popielusko (l’ultimo grande martire di Solidarnosc) rispose: “Ma io sono già libero!”.
Cosa possiamo sperare, allora?
Occorre recuperare ciò che insegna la saggezza biblica. La speranza nasce dalla fede. E la fede è innanzitutto fiducia. Il giusto è capace di fede perché non calcola. Nel suo esporsi al rischio di persecuzione, di strumentalizzazione, di emarginazione il giusto dà tempo all’altro (anche al suo nemico) rimanendo in una posizione comunicativa. Il tempo che così si costituisce è lo spazio di una possibile intesa, di un riconoscimento, di una parola comune. Nel suo sacrificio il giusto ricostituisce così il tessuto sociale, senza escludere nessuno in linea di principio. È proprio l’opposto di ciò su cui insiste il sistema massmediatico odierno, soprattutto in Italia, pieno di individui che denunciano il male (che è sempre e solo altrui) e che lavorano per un redde rationem politico-giudiziario, inizio di una futura epoca di prosperità e di pace che in realtà non si intravvede mai.
(a cura di Gianfranco Dalmasso)