Siamo o meno al crepuscolo della cosiddetta economia capitalistica? Verso quali sponde ci sospinge questa crisi economico-finanziaria divenuta a tutti gli effetti, per noi italiani, recessione? Sono queste, come altre simili, le domande che impegnano gli studiosi di cose economiche, ma anche e soprattutto l’“uomo della strada”.
Proprio quest’ultimo (colui che tutte le teorie capitalistiche avevano astrattamente e pomposamente individuato in quel burattino egoista e senza sentimenti che è “l’homo oeconomicus” e che avevano preso come modello per motivare scelte ed operatività economiche tutte incentrate sul tornaconto) è profondamente scoraggiato sul proprio futuro, si attende risposte che possano dipanare la sempre più fitta ragnatela di incertezza dell’oggi per iniziare a intravedere, anche se con fatica e rinunce, prospettive di lavoro per sé e per i propri figli.
Il lavoro è e sarà il vero problema a cui si dovrà dare adeguata soluzione perché senza il lavoro l’uomo non ha speranza e la sua stessa dignità viene compromessa. Senza lavoro, l’impotente “solitudine” che origina dall’odierna crisi e che attanaglia l’odierno homo oeconomicus, evolverà verso un inquietante senso di abbandono e di frustrazione con tutte le conseguenze sociali che si possono immaginare. Se non saremo capaci di trovare un’adeguata risposta al problema del lavoro, allora per l’uomo della strada diverrà impossibile immaginarsi un futuro, e la responsabilità di tutto questo ricadrà sia sulle scelte economiche (e sulle relative ideologie materialiste) che il capitalismo ha prodotto e che sono state generatrici della crisi, ma ricadrà anche su chi oggi, ancora “schiavo” di quella ideologia, non libera la mente e il cuore per rinvenire soluzioni che siano realmente a servizio del bene comune.
Occorre convertire le menti ed il cuore per liberarci dalle strettoie e dalle illusioni di un’economia materialista come è quella capitalistica (e soprattutto di quella con maggior valenza finanziaria), un’economia che ha distrutto il libero mercato e che se ne “frega” della persona e dei suoi reali bisogni per perseguire solo obiettivi di massimo profitto possibile in tutte le situazioni in cui opera e lo fa anche ora in piena crisi.
L’economia capitalista è naturalmente contraria al bene comune, perché, di fatto, persegue il bene (l’interesse) di pochi, garantisce solo coloro che detengono il vero potere che viene loro dalla possibilità di gestire denaro con il solo fine di accumulare nuove quantità di danaro. L’economia capitalista al massimo persegue il “bene totale”, ovvero quel bene statistico che evidenzia una crescita totale della ricchezza in un certo territorio, ma poco o affatto si interessa di approfondire sul come questa ricchezza viene distribuita e si affida fideisticamente al mistero che il mercato (possibilmente senza regole) saprà farlo in maniera adeguata tramite le proprie naturali caratteristiche. Più che dinnanzi ad un’empirica certezza di ciò che è in grado di fare il mercato siamo di fronte ad un dogma laico a cui il liberismo capitalista ha dato un nome: “la mano invisibile”.
Su queste peculiarità dell’economia capitalistica ci hanno sempre avvertito le encicliche sociali dei Pontefici. Basterebbe rileggersi quanto ha scritto Pio XI nella sua Quadragesimo anno del 1931 per accorgersi di come quelle parole siano ancora attuali e di come, nel fra tempo, nulla è stato “convertito”, anzi si è mostruosamente aggravato. Scriveva Pio XI ai tempi della “grande crisi” e agli inizi dell’era fascista (ai punti 105, 106 e 109 dell’enciclica): “E in primo luogo ciò che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi è solo concentrazione della ricchezza, ma l’accumularsi di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento. Questo potere diviene più che mai dispotico in quelli che, tenendo in pugno il denaro, la fanno da padroni; onde sono in qualche modo i distributori del sangue stesso, di cui vive l’organismo economico, e hanno in mano, per così dire, l’anima dell’economia, sicché nessuno contro la loro volontà, potrebbe nemmeno respirare… Ultime conseguenze dello spirito individualistico nella vita economica…: la libera concorrenza cioè si è da se stessa distrutta, alla libertà del mercato è sottentrata la egemonia economica, alla bramosia del lucro è seguita la sfrenata cupidigia del predominio; e tutta l’economia è così divenuta orribilmente dura, inesorabile, crudele”. Come dire: sotto il sole nulla di nuovo, anzi di antico; un antico non superato e che egemonicamente sopravvive.
Il tempo di Mammona non è stato superato, anzi le imbastiture della sua rete si sono fatte sempre più fitte e costringono Giovanni Paolo II a scrivere in tema di capitalismo (Centesimus annus, 42), quanto segue: “Se con ‘capitalismo’ si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di ‘economia d’impresa’, o di ‘economia di mercato’, o semplicemente di ‘economia libera’. Ma se con ‘capitalismo’ si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa”.
Come dire: l’economia del libero mercato ha delle regole (proprie o imposte dalla legge) che governano gli scambi e la reciprocità degli interessi che in esso si incontrano, regole che sono protese ad evitare lo sfruttamento e la speculazione, ma se viene a mancare tutto questo, allora l’economia di mercato diviene solo una “forma-strumento” attraverso il quale il tornaconto speculativo postula, nella finzione giuridica di un’apparente concorrenza, la sua sostanza sfruttatrice e speculativa. Nell’economia d’impresa, nell’economia di mercato, nell’economia libera sono indispensabili regole e disposizioni legislative (fondate su saldi principi etici) che indirizzino i processi con il preciso scopo di postulare il bene comune e garantire le parti più deboli. Al centro di questa economia è posta la persona umana (così come ha ribadito Benedetto XVI nella Caritas in veritate, 45) con il suo bisogno cronico e congiunturale, perché “rispondere alle esigenze morali più profonde della persona ha anche importanti e benefiche ricadute sul piano economico. L’economia infatti ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento; non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica amica della persona”.
Proprio alla luce di questa affermazione è possibile sottolineare che nell’economia libera il primato tra capitale e lavoro spetta a quest’ultimo, diversamente da quanto accade nell’economia capitalistica, ove questo primato è sostanzialmente invertito e dove è il capitale che vincola a sé gli altri fattori produttivi e, quindi, anche il lavoro che viene così trattato come una merce fra le altre merci. In tema dobbiamo partire da ciò che è fondamentalmente puntualizzato nella Rerum novarum (16): “Non può sussistere capitale senza lavoro, né lavoro senza capitale”. Questa espressione intendeva evidenziare che solo la concordia tra questi due fattori produttivi è viatico verso un’economia libera in quanto rispettosa della persona umana, ma apriva anche la strada verso approfondimenti sempre più centrati sull’etica del bene comune e sul contenuto della proprietà dei mezzi di produzione e, quindi, sul riconoscimento del primato della persona sulle cose.
Primato magnificamente perimetrato da Giovanni Paolo II al punto 12 della Laborem exercens: “…si deve prima di tutto ricordare un principio sempre insegnato dalla Chiesa. Questo è il principio della priorità del ‘lavoro’ nei confronto del ‘capitale’. Questo principio riguarda direttamente il processo stesso di produzione, in rapporto al quale il lavoro è sempre una causa efficiente primaria, mentre il ‘capitale’ essendo l’insieme dei mezzi di produzione, rimane solo uno strumento o la causa strumentale. Questo principio è verità evidente che risulta da tutta l’esperienza storica dell’uomo… Così, tutto ciò che serve al lavoro, tutto ciò che costituisce – allo stato odierno della tecnica – il suo ‘strumento’ sempre più perfezionato, è frutto del lavoro dell’uomo”. Questo perché “Di tutto ciò che nel processo di produzione costituisce un insieme di ‘cose’, degli strumenti, del capitale, possiamo solo affermare che esso condiziona il lavoro dell’uomo; non possiamo, invece, affermare che esso costituisca quasi il ‘soggetto’ anonimo che rende dipendente l’uomo e il suo lavoro” (13).
Di fronte a tutti questi ragionamenti non siamo affatto in presenza di una “terza via economica” proposta dalla Chiesa, ma siamo richiamati a porre una netta distinzione tra economia di mercato (ovvero economia d’impresa o economia libera) ed economia capitalistica, tra un’economia regolata verso il bene comune e che pone al centro la persona umana con i suoi bisogni, ed un’economia il più possibile deregolata, che persegue in maniera tornacontista il massimo profitto congiunturale ed è soddisfatta (nel caso in cui minimamente se ne interessasse) del bene totale statisticamente calcolato. Siamo chiamati a porre distinzione tra un’economia ove il suo principio etico è il bene comune perseguibile nella solidarietà attraverso la sussidiarietà e dove il “cuore” è aperto al “dono”, ed un’economia ove il principio etico è il tornaconto della persona che agisce e dove – e ne siamo tutti testimoni in quanto origine di questa crisi – il denaro è chiamato a produrre nuovo denaro e il cui possesso dà potere anche di distruzione.
La Chiesa non propone una terza via, ma una profonda riflessione su ciò che è accaduto e un’attenzione a ciò che ha sempre affermato. Questo è autorevolmente richiamato da Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis al punto 41: “La dottrina sociale della Chiesa non è una ‘terza via’ tra capitalismo liberista e collettivismo marxista, e neppure una possibile alternativa per altre soluzioni meno radicalmente contrapposte: essa costituisce una categoria a sé. Non è neppure un’ideologia, ma l’accurata formulazione dei risultati di un’attenta riflessione sulle complesse realtà dell’esistenza dell’uomo, nella società e ne contesto internazionale, alla luce della fede e della tradizione ecclesiale”.