Hugo Mujica è un poeta argentino nato a Buenos Aires nel 1942. La morte del padre in giovane età lo porta ad una precaria situazione economica e familiare, ma allo stesso tempo, come dice Ernesto Sabato, ad una “temprana libertad”, una libertà precoce. Ne approfitta per recarsi negli Stati Uniti, dove vive negli anni Sessanta la mitica stagione del Greenwich Village di New York, in cui esperienze artistiche straordinarie si intrecciano con esistenze on the road, sperimentali, e anche allucinogene. È amico di Allen Ginsberg.
Viaggia poi a lungo, soprattutto in Europa, conoscendo infine la vita monastica nell’ordine trappista e vivendo come monaco con il voto del silenzio per sette anni. È in questa epoca che conosce il grande scrittore e monaco Thomas Merton. Tornato in Argentina, diventa sacerdote. La sua opera poetica è tradotta in numerose lingue; in italiano, per l’editore Raffaelli, sono uscite due raccolte: la prima di Poesie scelte e la seconda, recentissima anche in spagnolo, sempre a cura di Alessandro Ghignoli, si intitola E sempre dopo il vento, e sarà presentata al Centro Culturale di Milano in Via Zebedia domani (venerdì 25 ottobre alle ore 21).
Quella di Mujica è una poesia della concentrazione estrema, che si gioca su pochi elementi, scelti con cura diligente e raffinata. In Italia il grande modello di questo stile sono le poesie di guerra di Giuseppe Ungaretti. Anche per Mujica, infatti, lo spazio bianco della pagina è estremamente importante. È, come per Ungaretti, il silenzio in cui ascoltare la voce profonda dell’essere. Dice un suo testo: “Il viaggio più/ lontano/ è la calma“, proprio quella che occorre per trovare un nuovo inizio, una nascita autentica, liberata da tutte le scorie di un io che non ha più nulla di puro: “cerco un’alba vergine di me“.
L’attenzione e la concentrazione di questo poeta, dunque, passano attraverso uno svuotamento di tutto il superfluo che ci contraddistingue e impedisce di trovare noi stessi: “Ogni nascere chiede nudità“. Sembra persino che le domande solite, la ricerca stessa, se caratterizzata eccessivamente dal nostro arbitrio e dalle parole che noi attribuiamo alle domande, siano ostacolo, più che aiuto, al ritrovamento della nostra vera essenza: “Nel fallimento della ricerca/ si rivela ciò che ci trova:/ ciò che chiede d’essere accolto/ nel vuoto di ciò che ci è stato strappato“. Non siamo noi che troviamo, bensì è ciò “che chiede di essere accolto” che ci trova. A noi occorre “tornare/ a inebriarci alla fontana:/ bisogna tornare alla sete” e così tutto ciò a cui abbiamo rinunciato diventa una “vittoria”, lo spazio vuoto che accoglie nel momento stesso in cui rinuncia: “sono la mia vittoria su ciò che ho perduto,/ sono ciò che ormai non attendo“.
Nella poesia di Mujica spirito e concretezza, anima e carne si toccano. Quella che potrebbe sembrare una posizione orientaleggiante (ma anche Ungaretti aveva nel suo zainetto di soldato una delle prime traduzioni italiane di haiku giapponesi), anche per l’evocazione frequente, fin dal titolo, della voce della natura più che degli eventi degli uomini, si rivela invece come una vasta e rinnovata meditazione sull’incarnazione, in cui il “fuori” conta più del “dentro”: “Quando l’anima è ormai carne,/ quando si vive nudo,/ tutto il fuori è la propria profondità,/ da ogni altro/ si ascolta il proprio battito“.
L’altro da me, il fuori da me diventa il luogo della più profonda conoscenza dell’essere, purché nello svuotamento dal sé si sia disponibili a consegnarsi al tutto che potrebbe venire; avviene allora la scoperta che Qualcuno ci sostiene da sempre: “Conoscerci è una consegna,/ non un sapersi,/ è slegarsi/ e scoprire che non affondiamo,/ che siamo stati sempre/ sostenuti“.