«Che cosa ho provato? Commozione e tristezza: commozione per il grande dono ricevuto, tristezza perché il nostro padre ci lascia. Ma è una tristezza che in Dio è piena di speranza». Dopo la rinuncia di Benedetto XVI che ha stupito la Chiesa e il mondo, parla il cardinale Georges Cottier, domenicano, teologo emerito della Casa Pontificia, per anni uno dei più stretti collaboratori di Joseph Ratzinger. Cottier spiega a ilsussidiario.net come e perché con il suo gesto Benedetto XVI ha dato alla Chiesa un’altra delle sue lezioni magisteriali formidabili. E conoscendolo, non è affatto detto che sia l’ultima.
Eminenza, nel commentare la notizia della rinuncia di Benedetto XVI, si è parlato di grande coraggio, di grande umiltà, ma anche di «modernità» del papa. È un giudizio corretto?
Sì, ma solo se lo capiamo bene. Nel suo insegnamento Benedetto XVI ha riservato grande attenzione alla modernità: sulla secolarizzazione ha detto e scritto molto, lo stesso ha fatto sulla crisi spirituale dell’Europa. Ma sono convinto che i giornali intendessero riferirsi alla modernità dell’atto che il papa ha compiuto. Una ipotesi, come sappiamo, già attentamente considerata nel suo libro-intervista con Peter Seewald («Luce del mondo», 2010, ndr) e duque già facente parte del suo modo di considerare il mandato petrino. Essere successore di Pietro per Benedetto XVI suppone la capacità integra di esercitare questo ministero.
Non si tratta secondo lei di una svolta radicale, piena di implicazioni importanti, in senso nettamente «moderno» appunto?
Guardi, io vedo due cose. La prima è quella che tutti possiamo constatare, e cioè che oggi si vive più a lungo: è, banalmente, un fatto statistico. Oggi la scienza e la medicina rendono possibili frontiere prima impensate. Fino a venti-trent’anni fa si moriva a 70 anni o poco più, oggi non è raro arrivare alla mia età (91 anni, ndr). Il vigore e la lucidità però possono non esserci più, e questo Benedetto XVI lo sa benissimo. La seconda cosa è conseguenza della prima: con il suo gesto il papa ha aperto la porta alla volontà dei suoi successori di permettere l’esercizio della vocazione di successore di Pietro nella pienezza delle facoltà fisiche e spirituali.
Andandosene, dunque, Benedetto XVI inaugura uno «stile» di pontificato?
Credo che in avvenire avremo spesso la figura di un papa nominato giovane che vive molto più a lungo, fino a 85-90 anni, ma che non per questo deve accettare il ministero petrino fino alla fine. Rimane naturalmente saldo il principio che colui che decide è il papa, non altri.
Proprio per questo, modernità potrebbe anche avere una diversa accezione: la bontà del gesto di Benedetto rispetto all’uso invalso fino ad ora.
No, perché quello che si è fatto fino adesso attiene alla storia, e non lo si può strumentalizzare mettendo in opposizione un presunto progresso, cominciato lunedì scorso, e un passato conservatore. Il fatto, ripeto, è che con il progresso scientifico e tecnico si vive di più, almeno − per ora − nei paesi occidentali. La Chiesa ne tiene conto, e non potrebbe essere diversamente, proprio perché la Chiesa stessa è Cristo che opera nella storia.
Si è riconosciuta a Benedetto XVI una grande umiltà. Il papa ha rinunciato al potere?
No, anche questo schema è falso. Nella Chiesa chi comanda è un servitore, e Benedetto XVI lo è stato fin dall’inizio, da quando definì se stesso «un umile lavoratore nella vigna del Signore», cioè un umile servitore del gregge di Cristo. Quella non fu una frase di prammatica, ma l’espressione della sua spiritualità e della sua personalità profonda. L’autorità che viene da Cristo è un servizio; l’umiltà di Benedetto è stata quella di comprendere che per servire Cristo era venuto il momento di rinunciare.
Non dev’essere stato facile.
Certamente no. Con grande nobiltà, ha agito da uomo semplice, non da politico. Prima ha raggiunto la certezza in cuor suo, davanti a Dio. Ha maturato la decisione per molto tempo, custodendola nel suo cuore; ha pregato, fino alla piena convinzione di non avere più la salute necessaria per adempiere pienamente il suo servizio. Che oggi, diversamente dal passato, è pesantissimo. Anche qui sta la vera modernità: oggi la massa di pellegrini che viene al Pontefice è enorme, il contatto con la folla è molto più impegnativo rispetto a cinquant’anni fa, gli impegni si susseguono senza sosta, sono estenuanti. Tutto questo una volta nel papato non c’era.
Può un uomo, con la sua ragione e la sua libertà, rinunciare come ha fatto Benedetto XVI ad un mandato che per la Chiesa viene dall’alto, cioè da Dio stesso?
Ma lo Spirito santo è dato a delle persone mortali. Se egli fosse stato, e il diritto canonico non a caso contempla questa eventualità, incapace di intendere, ipso facto la Chiesa avrebbe saputo di dover eleggere un nuovo papa. Benedetto XVI, in piena coscienza, ha obbedito a Cristo. Il suo non è stato l’atto di una persona in preda allo sconforto; al contrario, è stato un atto dettato dalla virtù di prudenza.
Cosa ci ha voluto dire il papa con la sua rinuncia?
Che non abbiamo possesso del mandato ricevuto da Cristo. Quello di Benedetto XVI è stato un grande dono: ha vissuto fino in fondo, nella sua carne, con la sua azione, la parola biblica ed evangelica di servitore. È stato un dono, inimmaginabile, a tutta la Chiesa, a tutti i vescovi e a noi cardinali prima di tutto. Un dono che ci educa, facendoci riflettere, chiamandoci ad un esame di coscienza: cosa fai, tu, di quello che hai ricevuto come responsabilità? Ti comporti come proprietario o servitore? Non possiamo non rispondere a questa domanda.
Si parla di un’ultima enciclica sulla fede.
L’ho sentito anch’io, ma non ne so nulla.
Che cosa ha provato al momento dell’annuncio?
Sono stato invaso dalla commozione e insieme ho provato una grande tristezza: commozione per il grande dono ricevuto, tristezza perché il nostro padre ci lascia. Ma è una tristezza che in Dio è piena di speranza.
(Federico Ferraù)