Una «leggenda nera» per i nemici e i complottisti, una ricchissima miniera di informazioni storiche per chi è interessato a capire gli eventi visti e vissuti da uno dei protagonisti della repubblica. «Andreotti non aveva un archivio, era il suo archivio» dice a ilsussidiario.net Paolo Gheda, storico e collaboratore dell’Istituto Luigi Sturzo, l’ente che oggi ospita nella sua sede l’enorme quantità di materiale documentario privato appartenuto al senatore a vita scomparso l’altro ieri. Gheda è tra coloro che hanno avuto una voce in capitolo nel convincere Andreotti a consegnare il suo archivio all’Istituto Sturzo.
Professore, si è parlato di un gigantesco «armadio della Prima repubblica», custodito appunto nel sotterraneo dell’Istituto. Non sarebbe meglio che fosse tutto alla luce del sole?
Sull’accessibilità del materiale penso che sia necessario mantenere una certa prudenza. La collocazione invece è stata fatta con criteri scientifici, a norma di legge, ed è relativamente recente. Prudenza non vuol dire occultamento di segreti di Stato, ma la giusta preoccupazione che le carte siano rese accessibili a persone competenti. Soprattutto, che abbiano anche una conoscenza della cultura propria del mondo cattolico.
Andreotti però è stato capo del governo di tutti gli italiani.
Direi così: solo a chi ha un buona conoscenza della storia di questo paese, in cui la Chiesa ha avuto e ha tuttora una parte così rilevante, quel materiale può dire tutto ciò che è in grado di significare. Anche solo per il semplice motivo che Andreotti era un credente.
Di che cosa stiamo parlando esattamente?
Si tratta di un archivio di versamento della segreteria personale di Giulio Andreotti: il senatore si valeva di un consistente apparato di segreteria personale che gli preparava tutte le carte di cui aveva bisogno di volta in volta, e che egli stesso studiava, appuntava, elaborava. Il materiale, 3500 faldoni disposti prevalentemente per indice tematico, va dal 1946 al 2012 ed è uno dei più vasti dal punto di vista cronologico tra gli archivi personali e privati in Italia. Non è di proprietà dell’Istituto Sturzo ma della famiglia Andreotti, che lo ha dato in gestione al Comitato dell’Archivio presieduto dall’avvocato Mario Barone, amico strettissimo del senatore a vita.
Cosa c’è al suo interno, professore?
L’archivio è costituito per la maggior parte dai dossier che lo stesso Andreotti faceva preparare per ogni questione politica o personale che interessava la sua attività politica e istituzionale. Dava mandato ai suoi collaboratori di reperire tutte le informazioni possibili su ogni questione da trattare. Oggi così l’archivio si presenta ordinato per dossier: dai presidenti americani agli stati esteri, alle questioni di politica interna italiana relative alle questioni più scottanti. Vi sono confluiti documenti editi, inediti, manoscritti, fotografie, pure incartamenti riservati.
Contiene secondo lei informazioni tali da cambiare sensibilmente la nostra conoscenza della vicende dello Stato?
Assolutamente sì. Non sono poche le informative riservate. L’archivio si può considerare diviso in due parti: la parte inventariata e consultabile, e la parte ancora in fase di catalogazione, non ancora accessibile agli studiosi. Dal punto di vista storico, posso senz’altro affermare che nell’archivio Andreotti c’è tutta la storia dell’Italia repubblicana, sopratutto nelle sue relazioni internazionali e nei rapporti con il Vaticano. Materiali di prim’ordine che una volta studiati, se non potranno cambiare le linee generali dell’interpretazione storica del Novecento, arricchiranno però di molto la nostra conoscenza dei passaggi fondamentali della nostra Repubblica. Ad esempio, con Gianluigi Gorla, mio collega economista all’Università della Valle d’Aosta, stiamo progettando una ricerca su Andreotti e le regioni a statuto speciale.
A questo proposito, esistono già degli studi di rigore scientifico fondati sulle carte dell’archivio?
Qualcosa c’è già, e qualcosa si sta facendo: ad esempio, la prossima settimana interverrò a Forlì presso la Scuola di Scienze Politiche alla presentazione del libro di Antonio Varsori, L’Italia e la fine della Guerra Fredda. La politica estera dei governi Andreotti 1989-1992 (2013); c’è poi la biografia ben fatta, anche se di taglio giornalistico, di Massimo Franco (2008). Con i colleghi di Scienze politiche di Bologna, inoltre, stiamo curando un volume a più voci, in uscita quest’anno sempre per Il Mulino, sulla leadership democristiana che prende in esame i profili di De Gasperi, Dossetti, Fanfani, Moro, e infine proprio quello di Andreotti, che ho scritto io.
Si diceva che un ruolo di primo piano ce l’hanno anche le carte vaticane.
Sì. A questo proposito, per esempio, mi viene in mente un faldone molto interessante che riguarda i rapporti tra Andreotti e il cardinale Giuseppe Siri. Avendo visto personalmente sia le carte dell’archivio Andreotti sia quelle dell’archivio Siri – due fondi che nei rispettivi ambiti, civile ed ecclesiastico, sono da considerare tra i più importanti nel nostro paese per mole di documentazione e qualità delle notizie –, posso dire che tra ai due c’è stata una grande vicinanza e consonanza nell’intendere i rapporti tra Chiesa e politica.
Si è molto insistito sull’idea di Andreotti che si fa dettare l’agenda da Oltretevere (o viceversa). Cosa può dirci in proposito?
Si vede senz’altro una corrispondenza di intenti e di vedute tra le due diverse prospettive. È molto vero quello che ha affermato Andrea Riccardi: Andreotti era una sorta di «cardinale» esterno alla Curia romana, innanzitutto perché capiva i problemi dei vescovi come nessun altro politico italiano, soprattutto di quei prelati che manifestavano una forte attenzione sociale. Sul piano operativo, in realtà, non si faceva dettare l’agenda da nessuno.
Andreotti non aveva solo rapporti con le gerarchie, ma anche con i movimenti.
Certamente. Si è molto insistito sul fatto che simpatizzasse per una certa linea interna alla Chiesa. La spiegazione di questa amicizia però non risiede innanzitutto − o soltanto − sul piano politico, ma su quello più generale dell’ispirazione cristiana di Andreotti. La grande apertura che egli manifestò, dopo il Concilio, verso i nuovi movimenti ecclesiali, in particolare per Comunione e liberazione − apertura che storicamente trovò una corrispondenza anche nel cardinale Siri − sta a indicare la sua sensibilità per un certo modello di Chiesa, attiva, partecipe, sociale, non ripiegata su se stessa.
E la vita privata?
Nell’archivio c’è anche quella e ci rende un Andreotti inedito. La cosa ci può sorprendere se stiamo alla politica di oggi, dove la vita pubblica e quella privata sono ormai tutt’uno. Le carte di Andreotti, invece, e dunque della politica della Prima repubblica nella sua massima esposizione, ci riservano pezzi di vita quasi del tutto ignoti, dal politico spettinato affacciato sulle cascate del Niagara, in compagnia del presidente americano, ai suoi quaderni di scuola.
Come ha potuto Andreotti mettere insieme una tale quantità di materiale?
Era una sua caratteristica. Annotava, personalmente, tutto quello che passava sotto le sue mani: troviamo sigle, appunti a margine di documenti, intere parti autografe, fotografie. Senza menzionare i diari, interamente scritti a mano, e le bozze dei libri: di questi ultimi Andreotti ne ha scritti quasi una sessantina. Vagliava personalmente tutto il materiale e aveva piena consapevolezza di tutto quello che gli veniva passato. I dossier sono un esempio da manuale di precisione, ordine, organizzazione. Come si diceva, in fondo l’archivio Andreotti è Andreotti stesso.
Le carte potrebbero cambiare quello che sappiamo anche dei rapporti tra Stato e mafia?
Le carte processuali sono un capitolo a parte: non ne abbiamo un conoscenza definita perché l’archivio è stato versato ma non ancora inventariato nella sua interezza. Non credo comunque che quei documenti possano riscrivere la storia che già conosciamo.
Lei come lo ha conosciuto?
È stato nel 2007, in occasione della presentazione di un libro del vaticanista Benny Lai, molto amico di Andreotti ed anche mio. Lai chiamò Andreotti e me a presentare la sua opera Il mio vaticano (Rubbettino). Ci lasciammo col proposito di rivederci. Quando lo andai a trovare a Palazzo Giustiniani si parlò, oltre che della sua lunga stagione politica, anche della memoria storica che essa rappresentava, e della necessità di preservarla e valorizzarla. Fu in quella occasione, ed poi in una mia lettera del 20 luglio successivo, che gli feci presente la necessità di lasciare in eredità alle future generazioni un messaggio, una cultura, una fede, anche attraverso la tutela e la valorizzazione delle sue carte. Due anni dopo avrebbe dato disposizioni in questo senso e il fondo personale fu collocato nella sede dell’Istituto Sturzo, allora guidato dall’on. Flavia Piccoli Nardelli, sotto la tutela del Comitato Archivio Giulio Andreotti presieduto dall’avv. Barone.