Il ventesimo secolo si è aperto, in pittura, con una dichiarazione di guerra al paesaggio. Vediamo solo qualche dato, muovendo dal futurismo, dalla metafisica e dal Ritorno all’ordine.
I futuristi non ne potevano più di quadri e quadretti con tramonti sul lago e albe in montagna. Nel febbraio 1910, in un piccolo caffè di Porta Vittoria a Milano, Boccioni, Carrà e Russolo, sollecitati da Marinetti, avevano stilato una vasta dichiarazione di poetica che, rielaborata concitatamente con l’aiuto di Marinetti stesso e Decio Cinti, era divenuta il Manifesto della pittura futurista. “Finiamola, coi […] Laghettisti, coi Montagnisti!… Li abbiamo sopportati abbastanza, tutti codesti impotenti pittori da villeggiatura!” avevano scritto. Il paesaggio, insomma, sembrava un genere irrimediabilmente vecchio, ottocentesco. Nasce infatti in questo periodo il “paesaggio urbano”, che ha come soggetto non la natura, ma la città.
Già nel 1907, del resto, Boccioni aveva confessato nel suo diario: “I campi, la quiete, la casetta, il bosco…tutto questo emporio di sentimentalismo moderno mi hanno stancato”. Senza saperlo attaccava così il cuore stesso del concetto di paesaggio, che nella pittura occidentale è legato prevalentemente a una nozione di quiete. L’interesse per la furia della natura e lo scatenarsi degli elementi (preceduto da un incunabolo come La tempesta del Giorgione, dove comunque si vede solo un lampo) si sviluppa ampiamente solo col Romanticismo e rimane complessivamente minoritario nelle scelte iconografiche. Sembra insegnarlo anche l’etimologia: “paesaggio” deriva da pagus, “villaggio”, la cui radice pag è una variante di pak, pace.
Sempre Boccioni, in una lettera a Sibilla Aleramo, rivolge agli alberi i seguenti complimenti: “Mentre vi scrivo piove. Brontolii del tuono. Tutti scappano. Gli alberi si agitano in masse verdi schiaffeggiati dall’acqua. Come sono imbecilli con la loro staticità radicata. Pensare che la campagna è tutta così. Come fate a viverci?”. Severini poi, nel manifesto Le analogie plastiche del dinamismo del 1913, invita a sopprimere “i paesaggi agresti” e a sostituirli con “elementi dinamici come un aeroplano in volo + uomo + paesaggio”.
Anche la pittura metafisica di De Chirico, però, non rappresenta paesaggi nell’accezione tradizionale del termine. Solo nel 1918 De Chirico disegna degli interni in cui si scorge, accatastato tra righe e squadre, un dipinto con una marina o un bosco. Non è un paesaggio, è un quadro nel quadro dal voluto effetto straniante.
De Chirico, in realtà, non era disinteressato al paesaggio, ma ne coltivava una nozione opposta a quella impressionista: alla pittura all’aria aperta, nata dalla sensazione immediata, contrapponeva una composizione meditata. “La natura non si deve sorprenderla. Fu questo lo sbaglio e la mancanza di tatto degli impressionisti.[…] La natura va educata, velata, adombrata, coltivata, nel mistero e nel silenzio dello studio. Pittori antichi come Poussin, Brill, Claude Lorrain e altri, usavano fare studi di paesaggio dal vero. Ma tali studi servivano loro per comporre poi il quadro che veniva elaborato e terminato nella tranquillità austera dell’atelier. Per questo le loro opere hanno l’aspetto severo e duraturo che sfida i secoli“, scrive nel 1919.
Le considerazioni di De Chirico sono in sintonia con la poetica del Ritorno all’ordine che si diffonde in tutta Europa dal dopoguerra alla metà degli anni Venti. Animato dall’ideale di una “classicità moderna”, il Ritorno all’ordine considera il paesaggio con sospetto. Riallacciandosi alla gerarchia dei generi formulata nel Rinascimento, vede infatti nella figura il soggetto fondamentale della rappresentazione. “Il paesaggio in pittura è uno schiavo, il padrone è l’uomo”, scrive un po’ brutalmente Ojetti. E Sironi, in un appunto degli anni Venti, osserva: “La pittura di paesaggio è un ostacolo allo sviluppo della vera grande pittura di figura[…] Le sue conseguenze sono il rammollimento del gusto e tutti i romanticismi”. Terre, acque, vegetazioni sono relegate, in questo periodo, sullo sfondo di avvenimenti storici, episodi letterari, racconti biblici, oppure si popolano di figure mitologiche e memorie archeologiche (rovine, statue, cippi), come avveniva nel paesaggio classico secentesco.
Non mancano certo, negli anni fra le due guerre, paesaggi affascinanti, da quelli carichi di mistero e sogno di Carrà (col suo indimenticabile Pino sul mare, 1921) a quelli georgici di Morandi, Soffici e Tosi, a quelli lirici del chiarismo, della Scuola Romana e di “Corrente”.
Eppure in generale si può dire che il paesaggio abbia avuto vita difficile nella pittura del Novecento. Non diversamente dalla natura, distrutta e avvelenata come non era mai successo prima. E sembra quasi che, quanto più l’uomo ha creduto di essere il creatore di se stesso, tanto più abbia avuto difficoltà a custodire (e rappresentare) quello che un tempo si chiamava il creato.