Oggi al Meeting di Rimini i filosofi Eugenio Mazzarella e Salvatore Natoli parteciperanno all’incontro su “La concezione dell’uomo: filosofia e libertà”, moderato da Costantino Esposito. Si tratterà di un dialogo sulla libertà. L’anticipazione.
C. ESPOSITO: Se gettiamo uno sguardo al panorama filosofico contemporaneo, la libertà sembra chiusa in una morsa. Da un lato essa viene identificata sempre di più con la rivendicazione e il riconoscimento da parte dello Stato dei “diritti” in base a cui pensiamo noi stessi (perché si dice che è la loro acquisizione che potrà renderci finalmente liberi), e quindi come una costruzione socio-culturale-politica del nostro io. Dall’altro lato la libertà è considerata come un’emergenza casuale dei nostri meccanismi biochimici (istintuali e cerebrali), una sofisticata elaborazione delle nostre basi evolutive, che si servono finanche dell’illusione di non esser determinati (di essere, cioè liberi!) per poterci determinare ancora più integralmente.
Nel primo caso la libertà è un prodotto della cultura, nel secondo un meccanismo della natura. In entrambi non è un’esperienza originaria e irriducibile. O forse, in entrambi i casi resta come un residuo problematico, una felice aporia, la spina nella carne di ogni riduzionismo.
E se poi guardiamo all’ambito storico-politico della pratica delle libertà, risulta ancora insuperata la vecchia alternativa tra una “libertà negativa” o assenza di interferenze nella scelta arbitraria degli individui, dovuta solo alla propria autodeterminazione, a prescindere dal significato di ciò che si sceglie, e una “libertà positiva”, in cui si deve scegliere solo ciò che vale di per sé e detta il dovere. Anche qui una fatale dicotomia: o l’autonomia del mio volere, a prescindere dalla verità o dal bene di ciò che è voluto, ol’affermazione del bene e del vero a prescindere dalla mia scelta.
La questione è: è possibile tornare a pensare in unità queste due prospettive, la libertà e la verità, l’io e il bene?
S. NATOLI: L’uomo è libero in quanto capace di scelta e perciò titolare della propria azione. Tuttavia questa libertà non è incondizionata perché l’uomo non può realizzare tutto quel che vuole, dal momento che non tutto è nell’ordine del suo potere. Inoltre, per quel che cade in suo potere, ha certo facoltà di scelta ed è per il bene o per il male. Può perciò costruire o distruggere, ma fino a che punto l’uomo può fare quel che può (è nelle condizioni di) fare? Da dove il vincolo, perché l’obbligo?
Per chiarire questi interrogativi bisogna mettere a tema il nesso che corre tra l’agire e il bene e domandarsi perché l’uomo è disposto a fare e a farsi del male. Lo fa liberamente o esiste un’apparenza di libertà che conduce all’autodistruzione? Ora, la libertà la si può considerare sotto due profili: come libertà dalla costrizione esterna e come facoltà di scelta – classicamente libero arbitro.
Nella libertà di primo tipo si inscrivono i diritti, poiché l’autonomia – Aristotele direbbe il volontario – è la precondizione della scelta e rispettivamente dell’assunzione di responsabilità; ove non vi è indipendenza ognuno può giustificare ogni cosa in nome dell’obbedienza fino alla banalità del male. La conquista di libertà fa tutt’uno con quella che chiamerei la progressiva “emersione della soggettività” frutto proprio del moderno; non è, infatti, un caso se nel corso della modernità l’implementazione del diritto si è caratterizzata come un’acquisizione sempre più larga dei “diritti soggettivi”; e non solo individuali, ma anche dei soggetti sociali − organizzazioni sindacali, partiti − e dei nuovi movimenti quali ad esempio il femminismo e simili. Ora se vero che, per quanto costretto, l’uomo resta libero – e di esempi storici ne abbiamo – non tutti gli uomini ne sono parimenti all’altezza e possono essere sopraffatti dal potere. Ne segue che la rottura dei vincoli di sudditanza è una condizione necessaria di libertà. Ma non è sufficiente perché l’uomo può compiere il male – e lo compie – ma non è libero per il male: contraddirebbe alla sua propria natura, mancherebbe il suo telos pena l’autodistruzione.
Detto questo, nel mondo contemporaneo l’uomo fino a che punto l’uomo è libero? È libero, certo, da coazione diretta – almeno nell’emisfero occidentale – ma lo è come effettiva capacità di scelta? Oggi, la libertà è vissuta sempre meno in termini di libero arbitrio − di valutazione delle proprie opzioni – e sempre di più come libertà d’accesso ai beni − ad esempio ai consumi − e pretesa ad un’espansione illimitata e individualistica di sé. E quindi contro gli altri, valutati − almeno in prima battuta e scaltramente − non tanto come nemici quanto come strumenti: di qui un asservimento reciproco e generalizzato. Evidentemente la contemporaneità non si riduce a questo ma sono questi i rischi più seri che oggi corre la libertà. Quali dunque l’estensione e i limiti della nostra libertà? Non siamo entità separate, ma esseri posti in relazione e quindi non possiamo realizzarci come essere liberi indipendentemente dagli altri: la libertà è la legge dell’altro dentro di noi. Per chiarire tutto questo è necessario considerare il rapporto che sussiste tra il soggetto e la legge e di chi tra i due detta legge; in breve bisogna accertare se e quando la legge libera, se e quando asserve. E se libera, libera da cosa? Dalla tendenza alla dismisura.
Nel momento in cui si parla di libertà non possono, però, non prendere in considerazione quelle ricerche scientifiche − e quelle correnti filosofiche − che sollevano dei dubbi sulla libertà umana. Ora non v’è dubbio che il comportamento umano non può essere tratto fuori dalle serie causali, ma la libertà non risiede tanto nell’assenza di condizionamenti, quanto piuttosto nella conoscenza di ciò che ci determina per determinarlo a nostra volta. La nostra libertà è tanto più grande quanto più abbiamo cognizione delle cause o, per dirla spinozinamente, quanto più di esse abbiamo idee adeguate. Liberi quindi nella consapevolezza dei propri limiti, ma liberi soprattutto − e mi si permetta l’ossimoro − nella necessità di scegliere per il bene.
E. MAZZARELLA: «Ridare identità all’uomo» è un imperativo antropologico già chiaro a Giussani nel Volantone del 1988. Qualcosa, la sua identità, di cui l’uomo non può farsi espropriare né da una società che gli dica cosa gli spetti o possa essere di quello che desidera essere, o da una scienza che magari al contrario gli dice cosa vogliono in lui automatismi neurofisiologici quando magari crede di essere lui a volere, e volere liberamente. A pena di perdere se stesso, questa è l’urgenza.
Ma nel concreto della percezione della realtà il cuore battente della sua identità, quale che siano le sue traversie, è la libertà, l’a priori esistenziale che decide se l’uomo perde o guadagna se stesso. Rispondere all’emergenza uomo, oggi, al repentaglio della sua identità, è saper tornare a vedere alla radice l’emergenza dell’uomo a sé come essere libero, e però esposto a essere davvero libero, o a perdersi alla sua stessa libertà.
Questo ci impegna in un lavoro (“giudizio e prassi creativa” diceva Giussani) sul senso vero della libertà, che quando è vera, è cioè esperienza reale di “soddisfazione” della vita non è mai solo libertà negativa, pura e semplice libertà da… come disponibilità di se stessi, delle proprie volizioni, che risponde solo a sé, limitata solo ab extra dall’eguale libertà negativa degli altri, ma è anche sempre positività della libertà, che la sottrae all’alienazione del girare a vuoto; libertà che si porta, “posta” su un progetto, qualcosa o qualcuno per cui vale la pena impegnare la propria identità.
Il richiamo alla libertà positiva nella temperie culturale e politica contemporanea non è scontato, perché nella cultura e nella politica del ‘900 la diffidenza per la libertà positiva ha una sua storia. Un grande liberale del ‘900, Isaiah Berlin, pur riconoscendo della libertà positiva l’ideale dell’autodeterminazione e della padronanza di sé, ne diffidava come vincolo esterno e deprimente le libertà individuali, meglio protette dalla libertà negativa. Berlin aveva in vista l’esperienza dei nemici politici della popperiana “società aperta”, le “società chiuse” e il loro risolvere la “libertà degli individui” nella “libertà del popolo”; una libertà fondamentalmente in capo, come nella “libertà degli antichi”, alle strutture oggettive della partecipazione individuale alla “pubblica libertà”.
Ma le disavventure pubbliche della libertà positiva sulla scena politica del ‘900 non ci esimono dall’affrontare il nodo della libertà, che è propriamente questo, annodarla alla realtà, evitando il rischio da un lato di arenarsi sulla vuotezza della propria libertà, e dall’altro di naufragare su una positività negativa della libertà, su una sua posizione negativa, tanto nella sfera personale che nella sfera pubblica, che elida la possibilità della pienezza del suo esercizio.
Ma qual è l’identità di cui dobbiamo equipaggiarci per reggere questa navigazione tra due diversi ma eguali possibili naufragi della libertà?
Tutto si decide, per dirla con Giussani, da “ciò che abbiamo di più caro”, da ciò che fascia la nostra vita. Perché ciò che abbiamo di più caro è in definitiva ciò che determina e definisce la nostra identità, il perimetro in cui abita e si muove come libertà. E in verità più di un perimetro, di una geometria chiusa e stabilita nell’Io della libertà, noi abbiamo bisogno di una libertà aperta alla verità di se stessa, al senso elementare di dipendenza e di evidenze originarie da cui muove e a cui muove, anche quando crede di venire da sé e di poter fare solo da sé.
Questa cosa si chiama “senso religioso” – la capacità, di cui ogni uomo in quanto uomo è capace, «di essere colpito dal reale, di vivere la realtà secondo la sua verità, perché capace di usare la ragione secondo la sua vera natura di apertura alla totalità della realtà» (Giussani). Quella “vibrazione” dell’essere che vediamo salire dalla terra nei cipressi, irraggiarsi dalle stelle del cielo, diffondersi sui campi nei quadri di Van Gogh.
L’esperienza religiosa cristiana fa Persona questa vibrazione, la riconosce come Cristo, e se ne fa fare persona: «Io sono Tu che mi fai». E all’Imperatore, al Potere del mondo, come nel racconto di Solove’v lo starets Giovanni, può rispondere: «Quello che abbiamo di più caro è Cristo», chiamando per nome, Cristo, l’eccedenza a noi, il fattore “altro”, indipendente e più grande di noi, che provoca e risveglia il nostro impeto umano, di cui parla Costantino Esposito. Certo la pretesa è grande, e non chiede niente di meno. Ma anche quando non si varchi la soglia di questa pretesa, non è poco tuttavia già solo saper stare in una “vibrazione” della realtà che a quel fattore “altro” sollecitante il nostro impeto umano ci sappia tenere aperti.