LETTURE/ Da Eschilo a Euripide: seguire gli dèi o ascoltare gli amici?
Fin dall’antichità, l’amicizia è uno dei più preziosi sentimenti umani. Perfino nei tragici, pur assumendo risvolti complessi, essa è un argine alla crisi dei rapporti. GIULIA REGOLIOSI

C’è nel periodo ellenistico-romano un proliferare di trattati, lettere e interventi sull’amicizia: segno di un’inquietudine irrisolta, perché è impossibile un’amicizia che non coinvolga emotivamente, non si preoccupi per l’altro, non soffra e gioisca con l’altro; mentre le tarde filosofie ellenistiche puntano soprattutto sull’equilibrio interiore, l’imperturbabilità, si chiami atarassia con gli epicurei o apatia/aponia con gli stoici; siamo in un’epoca in cui perfino la misericordia è una debolezza, tanto che una grande personalità religiosa e umana come Virgilio considera parte della fortuna del contadino, oltre all’assenza di invidia, anche l’assenza di compassione per il povero, perché fonte di dolore: neque ille /aut doluit miserans inopem aut invidit habenti. Eppure l’amicizia è un fatto reale, un’esperienza ineliminabile, un’esigenza umana che travalica anche l’altro imperativo ellenistico, l’autosufficienza; da qui la necessità di spiegarla, giustificarla, sdoganarla si direbbe: con ragionamenti etico/filosofici o politici che attraggono ma sono al fondo contraddittori.
Ma la grande tradizione mitica non si pone problemi, non ha bisogno di giustificazioni per valorizzare l’amicizia: non solo come compagnia affettiva, ma come sostegno, consiglio, condivisione anche severa. Un primo esempio lo troviamo nell’Iliade. Achille si è ritirato dalla guerra perché offeso da Agamennone: si sente nel giusto per aver obbedito ad Atena e non aver reagito con violenza, e osserva compiaciuto le difficoltà in cui si dibattono i compagni, sempre più ridotti nei ranghi e stretti dall’assalto troiano. Patroclo è un suo subordinato e ha obbedito all’ordine di farsi da parte, come tutto il contingente dei Mirmidoni. Ma quando si reca da Nestore per avere notizie, l’anziano guerriero lo rimprovera ricordandogli un compito grave a cui sta venendo meno, un compito affidatogli da Menezio, suo padre, al momento di partire: “Figlio mio, per stirpe Achille è più importante di te, ma tu sei più vecchio. Lui è molto superiore per forza; ma tu digli parole sagge e consiglialo e dagli indicazioni“. Non lo hai fatto, gli rinfaccia Nestore: “L’hai dimenticato: ma almeno adesso potresti dire queste cose al valoroso Achille, se ti ascolta. Chi sa se parlandogli potresti toccargli il cuore, con l’aiuto di un dio? E’ importante il consiglio di un amico“.
Patroclo riprende il suo compito di amico più grande, chiedendo ad Achille, se proprio non vuole cedere, di lasciarlo almeno tornare in guerra con tutto l’esercito. Non è un colloquio facile, perché Achille inizialmente lo deride dandogli della femminuccia, ma l’amico non si lascia smontare: “Sei intrattabile, Achille. Che mai mi prenda una simile ira, quale tu conservi, distruttrice“. E Achille acconsente, gli presta le sue armi, fa armare tutti i Mirmidoni. Però non rientrerà in guerra: solo la morte di Patroclo gli toccherà il cuore.
Un altro amico attraversa come presenza fedele le tragedie in cui è protagonista Oreste. Dopo l’assassinio di Agamennone il piccolo Oreste è vissuto presso lo zio Strofio e ha condiviso educazione e crescita col cugino Pilade. Quando si rimette in cammino per vendicare il padre, e poi nel doloroso travaglio per liberarsi dalle Erinni, i poeti gli affiancano spesso Pilade, come aiuto, consigliere, perfino complice. Sono molte e diverse varianti, in cui anche i caratteri dei personaggi si modificano. La più significativa è quella delle Coefore di Eschilo. Si tratta della tragedia centrale della trilogia, in cui Oreste torna in patria con l’ordine di Apollo di uccidere gli assassini del padre, l’usurpatore Egisto e Clitennestra, la moglie infedele. La vendetta è un dovere per gli antichi, e gli ordini del dio sono accettabili e giusti nei riguardi di Egisto. Ma il tabù del matricidio trattiene e angoscia Oreste, fino alla scena centrale in cui la madre lo richiama al rispetto verso chi l’ha partorito. E qui per la prima volta Eschilo accoglie la novità introdotta di recente da Sofocle nella struttura della tragedia: la possibilità di avere tre personaggi parlanti sulla scena. Pilade è stato in scena per tutto il tempo come personaggio muto, ma a questo punto viene interpellato da Oreste: “Pilade, che cosa devo fare? Devo avere ritegno ad uccidere mia madre?“. L’amico non dà consigli di saggezza o buon senso: il poeta gli affida come unica battuta un forte richiamo autorevole: “E dove andranno in futuro le profezie di Apollo date a Delfi, e i giuramenti fedeli? Considera tutti nemici piuttosto che gli dèi“.
Ma ricordiamo anche un’altra variante, l’Ifigenia in Tauride di Euripide. Oreste e Pilade giungono nella barbara Tauride (la Crimea attuale) seguendo un oscuro vaticinio di Apollo che dovrebbe liberare Oreste dalla persecuzione delle Erinni. Le oscure dee si manifestano in visioni tremende, che stravolgono Oreste: e l’amico lo sostiene e lo cura come un malato in delirio. Arrestati e portati davanti alla sacerdotessa che presiede ai sacrifici umani degli stranieri, vengono interrogati sulle vicende accadute in Grecia negli ultimi vent’anni, finché la sacerdotessa offre ad Oreste, di cui ignora il nome, di tornare libero in patria recando una lettera in cui finalmente lei può dare notizie di sé: è Ifigenia, salvata da Artemide ma costretta ad una orribile sorte. Oreste cede a Pilade la vita e la libertà, riconoscendone l’amicizia fedele fino al rischio di sé. Infine tutti si salveranno: ma in questa, che è una delle tragedie più amare di Euripide, l’amicizia, così come l’affetto fraterno, compensano il venir meno della fiducia nel mondo degli adulti, di cui nell’intrecciarsi dei racconti si scoprono l’ambizione, il potere e il tradimento.
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