Un’intervista a tutto campo con uno dei più brillanti pensatori d’Oltralpe, Rémi Brague, è quella realizzata da Giulio Brotti nel volume Dove va la storia? Dilemmi e speranze appena edito dall’Editrice La Scuola. Noto da noi per alcuni suoi volumi tradotti — tra cui ricordiamo Il futuro dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa (Bompiani 2005); Il Dio dei cristiani. L’unico Dio? (Cortina 2009); Ancore nel cielo. L’infrastruttura metafisica (Vita e Pensiero 2012) —, Brague proviene dagli studi del pensiero medievale, della filosofia araba in particolare.
Da qui una conoscenza di primo piano del pensiero islamico, il vero ponte, secondo l’autore, con la cultura europea. «La filosofia araba è ciò che vi è di più prossimo all’Occidente nella civiltà islamica, e dipende solo in piccola parte dall’islam in quanto religione» (p. 24). Mentre «la teologia islamica si è costituita in polemica contro il cristianesimo. La filosofia araba, in compenso, assume una certa neutralità in materia di religione. Farabi era stato allievo di cristiani e a sua volta ebbe come discepolo Yahyá ibn ‘Adi (+ 974), filosofo e teologo della Chiesa siriaca giacobita. Questa filosofia afferma l’esistenza di un Principio unico, ispirato alla concezione neoplatonica dell’Uno» (Ibidem). Si tratta di una corrente filosofica interessante la quale, purtroppo, «non è sopravvissuta alla modernità» (p. 25). Il motivo è il dibattito sul Corano come Parola increata che, sul finire del primo millennio dell’era cristiana, blocca ogni discussione in seno all’islam. Dal quel dibattito i mutaziliti, i partigiani di un Corano creato, sono usciti sconfitti.
Attualmente, secondo Brague, «i modernisti vorrebbero riportare in vita la soluzione mutazilita. Io — afferma — auguro loro buona fortuna, ma non dimentichiamo che sono trascorsi dodici secoli da quando quella scuola è stata eliminata. L’islam contemporaneo è tanto lontano da essa quanto noi lo siamo da Carlo Magno, e non ci si sbarazza tanto facilmente di abitudini di pensiero così inveterate» (p. 65). Una constatazione che porta Brague ad una sorta di scetticismo riguardo alla possibilità di un autentico dialogo tra occidente e islam. Se manca la mediazione filosofica tutto diventa più complicato. E questo nonostante vi sia «una sola cultura che si è aperta alle altre — non senza brutalità, ma anche con curiosità — e che ha tra l’altro prodotto un’etnografia , ed è la cultura occidentale» (p. 127).
L’intellettuale francese rifiuta l’accusa di “eurocentrismo” che viene spesso rivolta all’Europa: al contrario «la cultura europea è la sola a caratterizzarsi come “eccentrica”» (ibidem). Era la tesi, questa, di L’Europe. La voie romaine, il testo tradotto da noi con il titolo Il futuro dell’Occidente. L’eccentricità europea è dovuta alla capacita del cristianesimo di farsi “secondo”, di riconoscere l’autorità della cultura classica e della fede di Israele, di integrarli in una tradizione comune senza fare terra bruciata dietro di sé. E questo a partire non da una omologazione ma tenendo ferma la distinzione dei livelli e degli apporti.
Brague rifiuta l’idea, molto diffusa, dell’analogia tra i tre monoteismi, così come la dizione “le religioni di Abramo”. Il cristianesimo non è una religione del Libro. «L’incarnazione, però, è il solo evento che a rigore meriti tale nome, poiché in essa arriva veramente fino a noi qualcosa» (p. 62). E’ questo evento che non viene riconosciuto nel Secolo dei Lumi il quale dimostra «una cecità strana, persino incredibile» (p. 83) nel suo ridurre Cristo a Socrate, ad un mero maestro o modello di morale. Una cecità dovuta a «gente educata dai Gesuiti o dagli Oratoriani, come la quasi totalità dei philosophes e, più tardi, dei rivoluzionari» (p. 84).
Come è stato possibile? La spiegazione che ne offre Brague è interessante e decisamente insolita. Nel periodo che va dalla salita al potere di Luigi XV (1723) alla rivoluzione «il secolo manca — se così posso esprimermi — di santi “visibili”, attivi nel mondo, come erano stati san Vincenzo de Paoli o Filippo Neri, dei santi capaci di rendere il volto di Cristo credibile e dunque percepibile dalla loro epoca. […] Non so come spiegare questa sorprendente bassa marea tra due grandi secoli di santità, e di santità dotta e creativa, come furono il XVII e il XIX. Bisogna incolparne gli eccessi repressivi della Controriforma? O il colpo d’arresto dato al misticismo, con il relativo “crepuscolo dei mistici” (Louis Cognet)? O l’angoscia insopportabile indotta dal giansenismo?» (pp. 84-85).
L’illuminismo frutto di un tempo privo di santità. Brague rovescia in tal modo un luogo comune: quello che vede nel razionalismo la causa del declino della fede. Non di causa si tratta ma, piuttosto, di effetto. Il ché spiega una delle parti più interessanti dell’intervista, quella in cui Brotti lo interroga sul rischio odierno di identificare, alla maniera illuminista, il cristianesimo con la difesa dei valori cristiani. Come osserva Brague: «Il pericolo è grande, in effetti. Devo premettere che quando mi capita di udire la parola “valori”, ho un moto istintivo di rifiuto. Il modo più sicuro per farsi sconfiggere è di farsi trascinare sul terreno dell’avversario. Proprio questo fanno coloro che accettano di parlare di “valori” e della necessità di “difenderli”» (pp. 121-122).
Brague cita qui, come modello di questa posizione, l’Action Française del pensatore di destra Charles Maurras, un positivista non cattolico che ammirava l’istituzione gloriosa e secolare della Chiesa. Un modello analogo a quello degli “atei devoti” italiani i quali, afferma Brague, «sono coloro che già più di vent’anni fa mi ero arrischiato a chiamare “cristianisti”» (p. 123). Il suo scopo, chiarisce ora, non era di attaccarli. In qualche modo gli «sono simpatici per il semplice motivo che ciò che dicono è vero, quando affermano che l’apporto del cristianesimo alla società europea, e al suo irradiamento nel mondo intero, è stato nel complesso positivo» (ibidem). Vanno per questo incoraggiati ma, al contempo, non vanno assecondati nella loro ideologia “cattolica”.
Perciò «bisogna anche far notare loro due cose. La prima è un dato di fatto: la civiltà cristiana non è stata fondata da gente che credeva nel cristianesimo, ma da gente che credeva in Cristo. E dunque, non da dei “cristianisti”, ma semplicemente da dei cristiani. Io cito frequentemente come esempio san Gregorio Magno, che ha dato le fondamenta a ciò che chiamiamo Medioevo, a partire dal canto detto “gregoriano”; e, tuttavia, egli era persuaso che la fine del mondo “fosse per domani” e, dunque, che non vi sarebbe mai stata una “civiltà cristiana” nei secoli a venire. La seconda cosa da far notare ai cristianisti è in forma di domanda: se la fede cristiana era buona per i loro antenati, perché non potrebbe essere buona anche per loro? Perché non potrebbero pure loro tenerla in seria considerazione?» (pp. 124-125).