Devo ringraziare due amici poeti per la segnalazione di un autore che conoscevo solo di nome e che calorosamente invece mi hanno consigliato di leggere. Ho dato credito ai miei amici, che un po’ mi conoscono, e dunque sapevano che quelli che mi stavano consigliando erano romanzi che mi sarebbero piaciuti. Stessa pasta di McCarthy, mi dicevano durante la cena, dopo la presentazione di un bel libro di poesie di un altro amico poeta, in un ristorante gremito e rumoroso del sabato sera a pochi passi da Milano. Avevano voglia di convincermi e così è stato: parole come verità semplice, vite insensate e dignitose, intimo pudore e silenzi dentro la pianura americana battuta dal vento mi sono arrivate, anche se quasi a fatica tra le alte voci dei commensali del nostro e degli altri tavoli, come una benedizione, come un compito al quale a un certo punto ho deciso di ubbidire.
Così il giorno dopo sono stato a comperare uno dei libri della trilogia della pianura di Kent Haruf, Il canto della pianura in cui quasi nulla accade, ma, come accade nella vita, le cose si annunciano piano e poi chissà come fioriscono come gemme il cui senso sta nel loro orgoglioso esserci e nel nostro umile accoglierle. Così ho conosciuto le vite di Tom Guthrie e dei suoi figli, della sedicenne Victoria Roubideaux e della sua gravidanza, dei vecchi, burberi, taciturni e splendidi fratelli McPheron e di come riescano ad accogliere la vita che nasce dentro il cuore di Victoria.
Tre giorni mi ci sono voluti per finire Il canto della pianura e decidere di andare a comprare gli altri due libri. E’ stata la volta di Crepuscolo, altre trecento pagine in cui, ai protagonisti di quel libro, si aggiungono DJ e Dena, Joy Rae e Richie, Rose Tyler che lavora ai servizi sociali e dentro il cui sguardo s’intrecciano le storie di diseredati che trovano nella penna di Haruf una dignità e una forma di felice riuscita che gonfia il cuore di chi legge e lo lascia pieno di una consapevolezza diversa del bene e del male, della giustizia e del dolore. Due giorni per finire questo secondo episodio di un unico grande romanzo che si svolge a Holt, un paese del Colorado che alla fine della lettura vai a cercare se esiste davvero sulla carta geografica, che vuoi vedere se esistono davvero la Date, la Second e la Third Street e come ci si arriva alla fattoria dei McPheron; che vuoi andare da loro a dare una mano, o nella roulotte di Betty e Luther, il cui odore nauseabondo arriva dalle pagine fin dentro la tua stanza, la stanza di te che leggi e non riesci a condannarli: nemmeno tu ci riesci, perché ti ha preso lo sguardo di Haruf, tu sei come lui capace di accogliere, di giudicare come comunque dignitosi anche gli errori più grandi.
E così arrivo al terzo libro e capita che in un solo giorno, in una sola domenica, quella Benedizione scenda giù assieme all’inverno che comincia qui intorno a Milano e che comincia su Holt e che arriva a segnare la fine di Dad Lewis, un uomo rispettato da tutti in paese, circondato da amici e dalla moglie e dalla figlia e da una serie di personaggi che hanno incrociato la loro vita con la sua. E’ un commiato, quello di Benedizione, il commiato dentro cui conosciamo il rimpianto, la vergogna e l’amore. E sempre la dignità della vita, di ogni sua forma, di ogni suo passaggio: in questo libro lo sguardo di Haruf (che morirà effettivamente un anno dopo la pubblicazione di Benedizione), cioè la sua voce per noi, è quasi lo stesso sguardo di chi, come Dad Lewis, si affaccia la sera sulla veranda di casa sua e osserva il mondo uguale da cui tra poco se ne andrà: nella sua memoria i gesti, le persone, le grandi azioni e gli errori ricompaiono tutti come dentro un’unica grande lacrima. Ma niente di sentimentale accade nei libri di Haruf e quella lacrima è la compassione virile del narratore di fronte al mondo in cui non abbiamo deciso di essere, ma che dobbiamo ringraziare di avere avuto in dono. Così come io ringrazio i miei amici poeti per avermi fatto scoprire questo mondo semplice, apparentemente insensato e invece sempre moralmente dignitoso. Anche se adesso mi sento solo e triste, senza quei vecchi McPheron, senza Ike o Bobby, Victoria o Tom, Dad Lewis e sua figlia Lorraine; con una tristezza che è però quella della vita vissuta, dentro la quale incontri uomini e donne che ti fanno essere quello che devi e che a un certo punto dovrai lasciare. Perché è così che ci si sente quando si finisce un libro vero, che un po’ ti spiega chi sei, che ti dice che in fondo l’unica parola vera da dire sulla tua vita è una benedizione.