Il testo che segue è un estratto della relazione tenuta dall’autore al convegno internazionale “Krisis e cambiamento in età tardoantica. Riflessi contemporanei”, organizzato dall’associazione Patres, 6-7 aprile 2016, Università di Bologna.
Il cristianesimo antico, pur essendo per almeno tutti i primi tre/quattro secoli un gruppo minoritario, non ha assunto la mentalità della setta. […] È interessante vedere, in Tertulliano, il trattamento del termine factio, la cui connotazione semantica tende a designare un gruppo particolare la cui azione entra in contrasto, o è comunque almeno potenzialmente in tensione con il bene della società nel suo insieme. Egli ne parla ampiamente in una lunga sezione dell’Apologeticum (cc. 38-41), partendo dall’affermazione che il cristianesimo non può essere annoverato tra le factiones illecitae, dato che non fa nulla di ciò che giustifica i provvedimenti contro di esse. La ragione per cui le factiones sono vietate, infatti, “deriva dalla preoccupazione per l’ordine pubblico, per impedire che la città si scinda in partiti” (38,2).
La factio, per sua natura, è una parte e, in quanto tale, persegue interessi particolari che non possono che entrare in rotta di collisione con l’obiettivo primario del potere “ecumenico” dell’impero, che è quello di preservare l’unità e la stabilità dello spazio politico. Ma i cristiani — argomenta Tertulliano — sono anch’essi per natura “ecumenici” e quindi del tutto alieni da qualsiasi spirito di parte: “«per noi, che siamo indifferenti rispetto a qualsiasi ambizione di gloria e di prestigio, non c’è alcuna necessità di [essere riconosciuti come/agire come] un gruppo sociale e nulla ci è più estraneo della politica. Riconosciamo un solo stato che comprende tutti, il mondo” (38,3).
Si noti l’apparente rinuncia di Tertulliano, nella specifica prospettiva di questa impegnativa asserzione, a qualificare il cristianesimo come un coetus; quindi, si direbbe, a rivendicare per esso una visibilità e una rilevanza sociologica. Rinuncia che può apparire in contrasto con ciò che lui stesso afferma poco dopo all’inizio del capitolo 39, dove parla senza alcuna remora, come vedremo tra un momento, di Christiana factio, di coetus e di congregatio per qualificare la natura del soggetto cristiano (cfr. 39,1-2).
Il senso di questa particolare presa di posizione è quello di chiarire che non c’è, a suo avviso, un soggetto cristiano che come tale si concepisca come parte del corpo politico, cioè che sia interno allo spazio politico. Il cristianesimo c’è, nella polis, ma è al di là, o se si vuole al di sopra della politica perché il suo orizzonte è ecumenico (di un’ecumene che però, a sua volta, viene politicamente definita come omnium res publica).
In questa prospettiva (e solo in questa prospettiva, potremmo aggiungere noi), si può arrivare a dire che il cristianesimo per essere presente nel mondo non ha bisogno di schierarsi, anzi rifiuta la logica particolaristica degli schieramenti.
Ciò non significa, tuttavia, che i cristiani non debbano compiere delle scelte di rottura rispetto al contesto sociale in cui si trovano e quindi andare controcorrente, bensì che tali scelte vanno interpretate e comprese in un modo completamente diverso da quello della logica politica comunemente condivisa. […]
Fatto questo cambio di passo, il nostro autore può tornare sulla questione se il cristianesimo sia una factio e — ora sì! — rispondere affermativamente: “Ora esporrò io stesso le attività della fazione cristiana per mostrare che sono buone, dopo che ho confutato [la tesi] che siano cattive” (39,1). Anzi, la profondità e la densità teologica del vincolo associativo che lega i cristiani tra loro sono esplicitamente dichiarate con l’uso dell’impegnativa metafora del corpo: “Noi siamo un corpo grazie alla coscienza di una comune religione, all’unità del modo di vivere e al patto di una comune speranza” (39,1). Ma questo non può più costituire un problema e non mette in discussione l’assunto di partenza, cioè che il cristianesimo non è un partito che, all’interno dello spazio politico, possa minare l’unità e l’ordine della comunità civile: il nostro riunirci — sostiene infatti Tertulliano — è per “assediare Dio con le preghiere” a beneficio di tutti: “Ci raduniamo per formare un gruppo e un’assemblea per circondare Dio, come con un manipolo compatto con le nostre preghiere. Questa violenza è gradita a Dio. Preghiamo anche per gli imperatori, per i loro ministri e funzionari, per la stabilità del mondo, per la tranquillità della situazione politica, per ritardare la fine” (39,2).
Il cristianesimo è dunque una factio buona, la cui azione è positiva, anzi indispensabile per tutti: il coetuscristiano è un elemento di stabilità per tutto l’impero. Tutto il resto del lungo capitolo 39 è dedicato da Tertulliano ad una analitica descrizione della vita dei cristiani, dai momenti di riunione catechetica (39,3-4) al ruolo degli anziani che li presiedono (39,5), alla gestione delle risorse economiche (39,5-6), all’etica sessuale (39,11-13), alle agapi fraterne (39,14.16-19).
Questa sorta di autocertificazione di buona condotta — nella quale non è però mai assente l’elemento del giudizio sulla realtà esterna, che è anche la provocazione ad una riflessività autocritica da parte pagana — culmina in una formula sintetica che risignifica radicalmente il concetto di factio, ridisegnandone la posizione rispetto all’intera società: “Quando si radunano persone oneste e buone, pie, caste, la loro non si deve chiamare ‘fazione’ ma ‘curia’ (non est factio dicenda, sed curia)” (39,21). Non factio, cioè gruppo minoritario divisivo, elemento centrifugo che esercita una spinta disgregatrice, ma curia, cioè élite al servizio del bene comune (e al governo del sistema che alla cura del bene comune presiede).