E’ passato da poco Natale. Gesù è nato ancora, Gesù nasce sempre. Succedeva a me quando ero piccolo, accade ancora oggi per mio figlio: un mese prima ha cominciato a pregare la mamma perché andasse in soffitta, prendesse le scatole con le statuine del presepe, le case, la capanna, la stella, il muschio. Io non ricordo se aiutassi davvero la mia o se invece combinavo soltanto dei guai anche in quel paese felice. Ma vedo lui, la sua mamma che mette vie tutte le sue carabattole di ceramica e vetro, liberando così il ripiano del mobile che poi diventerà Betlemme. Poi comincia la festa: lui che impaziente le passa la carta che diventa terra, campi, strada; poi montagna arrampicata sulla parete con sopra un cielo liscio e lucente, blu come la notte oggi non è mai, piena di stelle. La capanna viene infilata tra quelle rocce di carta e non si sa come può restare, quella casa di paglia, sotto il peso di quella parete. Poi vengono le altre case, a costruire un paese improbabile e strano: case povere di contadini, stalle, un pozzo e un bivacco con il fuoco per i pastori, e sassi a segnare la via che li porta a Gesù; poi ancora il muschio e la mamma che arriva con una specie di giostra, un meccanismo misterioso e segreto: una sorgente, un ruscello con dell’acqua vera che scorre davvero. Poi le statue e le luci. E’ un paese in festa come mio figlio che si è tenuto un bambino nascosto nella paglia, dentro un cassetto, e ha aspettato la notte in cui sarebbe nato davvero per ritrovarlo tra le braccia di sua madre, per un miracolo che, anch’io come lui, abbiamo sempre aspettato. Nei prossimi giorni arriveranno i re magi con i loro cammelli, anche loro portati da una speranza che adesso è certezza.
Tutte le volte che guardo il presepe così, mi vengono in mente le parole di Ungaretti sul fronte, il suo corpo abbandonato dentro un fiume rosso di sangue che lo battezza di nuovo. Dentro quel confine di guerra e di morte, il poeta dice la cosa più vera sulla pace: “il mio supplizio è quando non mi credo in armonia”. Il dolore è lì, nella guerra che divide, nell’armonia spaccata tra noi e gli altri, tra noi e il mondo; ribevuta, riprovata nell’acqua che accoglie le sue quattro ossa come un’urna. Penso a quel fiume e guardo l’acqua del presepe che scorre, gente di plastica e gesso da tutte le parti del mondo arrivare lì, davanti a una capanna, a una stella, a un bambino. Parlano lingue diverse, qualcuno ha in tasca solo briciole e fame, solo pianto e dolore; qualcuno ha un mantello sfarzoso ed è arrivato lì avendo studiato i libri del cielo; qualcuno forse ha ancora un coltello sporco di sangue e una vita fatta di disastro e fatica. E sono tutti lì, e anche se il presepe è muto, la senti una musica diversa che ci suona dentro, senti che ogni cosa è al suo posto, anche se nessuno è al suo posto.
C’è una presenza che attrae: la speranza di incontrare un nuovo re è adesso la certezza di incontrare un bambino di fronte a cui, come davanti a tutti i misteri così sovraccarichi, dice Saint-Exupéry nel suo Piccolo principe, non si può che obbedire. E’ un paese finto, mi ha detto un amico a cui ho raccontato queste cose una volta, a cui forse fa bene credere almeno un giorno in un anno, ma è finto. E invece è più vero di ogni altra cosa: perché quello che disegna sullo scaffale del mobile è un fatto davvero accaduto per gente di carne e di sangue nel tempo, nella storia. Perché noi che adesso siamo davanti a questa memoria di plastica e carta ci siamo lasciati dietro ogni nostro fango ed orgoglio, siamo arrivati da scuola, dall’ufficio, dall’università, dalla strada e gli stiamo davanti. Perché adesso sperare la vita piena e la pace, l’armonia e la felicità di cui parla Ungaretti, è un desiderio che ha incontrato una risposta. Perché adesso, come ha detto Benedetto XVI, siamo stati salvati nella speranza: “ci è stata donata una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto e accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino…Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente”.
E’ di questa speranza che siamo certi, è con questa speranza certa che possiamo diventare costruttori di pace. Insieme a tutti gli uomini di buona volontà: quegli stessi a cui già allora, nel presepe vero, da sotto la stella, l’angelo aveva parlato.