Un Dio incalmato, che si fa nostro saldatore: c’e la poesia della botanica e della meccanica, nella teologia povera di un detenuto ignorante, che, nei suoi errori di lettura, riesce ad illuminare il Natale di una patria galera.
Con lo stile avvincente e mordace, ormai divenuto marchio di fabbrica, nel suo ultimo libro Marco Pozza ci conduce, con piglio risoluto, ad addentrarci nuovamente nelle pagine del Vangelo, seguendo il Cristo e la sua ciurma di pescatori di Galilea, uomini come il detenuto Salvatore.
È imbarazzo un Dio che si fa uomo nel grembo di una ragazza di Nazareth; che è assetato del desiderio d’Acqua viva di una samaritana, al pozzo di Giacobbe; che chiede ad un pescatore esperto di gettare le reti, rimaste sterili per l’intera notte, un Dio che promette il posto alla propria destra ad un brigante patentato.
Dio si fa (ri)conoscere attraverso tutti i sensi: con lo sguardo, che il Battista incrocia col Nazareno e si fa annuncio; con la vista, che permette ai discepoli di Emmaus di dare un nome alle Parole di consolazione udite lungo la strada; con il tatto di chi (l’emorroissa) è capace di toccare, senza spingere; con il gusto di un Dio che, a partire dall’Ultima Cena, si fa cibo e bevanda. “Dio è di passaggio: intercettarlo è salvarsi. Distrarsi è dannarsi”: solo la vigilanza ci consente di cogliere l’agguato di un Dio che, dopo aver scritto il nostro nome sul suo palmo, vuole ghermirci nel suo abbraccio.
Ecco quindi che, dopo L’imbarazzo di Dio e L’agguato di Dio, arriva L’iradiddìo a chiudere il cerchio di questa trilogia, che vuole avere l’ardire di rappresentare un percorso teologico per un ritratto, fedele e profondo, di Cristo. Dio, che da sempre ama giocare con i numeri, non ha lasciato nulla al caso, velando il mistero della vita del Figlio dell’Uomo all’insegna del numero 3 (non un caso, se si tratta del numero delle Persone di cui è composta la Trinità): trent’anni di vita silente e nascosta a Nazareth, tre anni di predicazione per le strade della Galilea, tre ore che ne segnano la Passione, tre giorni sono il Triduo a Gerusalemme, che lo ricongiunge all’Eterno. Le stagioni di Cristo: la primavera (trent’anni), l’estate (tre anni), l’autunno (tre giorni), l’inverno (tre ore). Morì per un malinteso: nell’illusione che si potesse riformare la società, per migliorare l’uomo, gli preferirono Barabba. Nacque per strada, come di chi è fuggiasco, da stirpe tutt’altro che immacolata, in una stalla lontana anni luce dall’idillio dei presepi nostrani. Rimase trent’anni ad assaporare il gusto delle cose semplici, tra casa e bottega, imparando a diventare uomo, pagandolo a caro prezzo. Solo quando il Battista “diminuì”, venne il suo tempo e cominciò la predicazione, infiammando di vita uomini e donne di cui ravvivò i sogni. Tre giorni che sono un’iradiddìo di emozioni, suoni, colori, crepitii, dubbi e pensieri e rappresentano la svolta, nella storia dell’Uomo, degli uomini, di Dio. Nella storia che Dio ha con gli uomini di ogni epoca.
“Sembra che Dio avesse una certa predisposizione per le canaglie” constata, audacemente, Radcliffe. Salvatore ne è solo una delle più recenti dimostrazioni: a volte, è agli ignoranti che è domandato di evangelizzare i dotti. Perché, con il loro intuito non adombrato da ulteriori sovrastrutture, riescono forse meglio a fiutare le strategie dell’Eterno, che non ha mai rinunciato a sporcarsi le mani, pur di intercettare lo sguardo dei poveri cristi.
L’iradiddìo, misura s-misurata per indicare lo sproposito, è l’unica possibile per immaginare l’amore che Dio riversa su ciascuno di noi.
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Marco Pozza, “L’iradiddio”, Edizioni San Paolo, 2017.