Anno simbolico di grandi celebrazioni e memorie private, il 2017 non è soltanto il centesimo anniversario delle due rivoluzioni che cambieranno, per sempre e da ogni punto di vista, la Russia. C’è un’altra ricorrenza da custodire, più silenziosa e meno epocale, e ciò nonostante necessaria e viva, perché figlia dell’incontro più stupefacente a cui si possa assistere: quello dell’arte con l’uomo.
Il 12 giugno 1997 saluta questo mondo uno dei più grandi autori di canzoni e poesie del secondo Novecento russo, Bulat Šalvovic Okudžava.
Nella sala gremita del teatro Vachtangov di Mosca il popolo in lacrime prende commiato dal cantore mandato dal cielo per consolare e illuminare l’anima russa in perenne tormento. Tante sono le generazioni che Okudžava, nato il 9 maggio 1924, tocca al suo passaggio: quella che era stata al fronte con lui nella Grande guerra patriottica, gli entusiasti degli anni Sessanta, gli smarriti dei Settanta, i giovani e giovanissimi che assistono al crollo delle speranze e non sanno che cosa potrà nascere da quelle rovine. Le lacrime scorrono per la fine di un secolo, di un’epoca e di una storia collettiva che in un uomo solo e solitario si è ritrovata tutta intera — compresa, amata e cantata nella sua miseria e nobiltà.
Definire Bulat Okudžava non è semplice, non esiste etichetta che riesca ad abbracciare per intero una figura così complessa, multiforme, lontana dalle mode, restia al plauso sguaiato; la simpatia e l’ironia innate di quel “georgiano con i baffetti” fanno da filtro e scudo al rumore intorno, anche se di persona rimane schivo e taciturno, crudelmente sincero, per la maggior parte del tempo un vero enigma chiuso a tutti.
Okudžava è conosciuto innanzitutto come “padre spirituale” della canzone d’autore russa, nata intorno agli anni Cinquanta in un clima di disgelo socio-politico e letterario e sullo sfondo di un boom poetico senza precedenti. A Parigi il poeta Aleksandr Voznesenskij così lo immortala: “Da noi è comparso un poeta fantastico. Versi normali, musica comune, interpretazione mediocre, nessuna voce. Tutto insieme è geniale”. Molti amici intuiscono al volo la rivoluzione che quelle canzoni stanno compiendo: sono storie minime, raccontate con musiche semplici, accompagnate — letteralmente — da tre accordi di chitarra, eppure con una forza che le pone in dialogo con le massime voci della poesia russa e con una melodia interiore che permette a Okudžava di inserirsi a pieno titolo nel pantheon mondiale della canzone, abitato da Brassens, Ferré, Violeta Parra, Atahualpa Yupanqui, Bob Dylan, De André, Vinicius de Moraes…
L’urgenza del dire percorre ogni manifestazione artistica di Bulat Okudžava — che sia canto, lirica o prosa. La sua parola si muove nell’impossibile equilibrio tra la storia individuale di un tempo e luogo preciso e le tragedie epocali del suo “secolo breve”, scorre libera tra passato e futuro, dice quel che abbiamo vissuto ieri e ciò che potrebbe accaderci domani. Le canzoni di Okudžava, “quell’incantevole unione di ironia e tristezza” — come le definisce il suo amico scrittore Fazil’ Iskander — diventano per milioni di russi una vera e propria medicina, insegnano ad odiare lo schiavo dentro di sé, a liberarsi dall’egoismo, dall’ipocrisia, a fidarsi, a dare valore a se stessi e a chi ci sta di fronte.
Fin da subito osteggiato dai ranghi e dai critici ufficiali, fuori posto per tanti motivi, Okudžava ha nei confronti dello Stato una posizione unica: non arriva quasi mai allo scontro diretto, se non quando capisce che per raggiungere il compromesso dovrebbe mettere in gioco i propri principi. Non è un dissidente tout court, anche se è amico di molti di loro; dal 1956 è iscritto al Partito, ma costantemente sotto l’occhio vigile del Kgb, e anche se inizia a cantare dagli anni Cinquanta il primo disco “ufficiale” esce due decenni dopo. I concerti sono organizzati sempre al limite tra il proibito e il consentito, in sale chiuse di istituti e università, ma stracolme di giovani e meno giovani che smaniano dalla voglia di sentirsi dire che cosa devono fare, come devono comportarsi.
La biografia, esistenziale e artistica, di Okudžava permette di raccontare una storia complessa — l’Unione Sovietica post-staliniana, quel groviglio di attese, delusioni, cataclismi e rinascite esploso il 5 marzo 1953, alla morte del capo supremo che aveva segnato a sangue i trent’anni precedenti. È un cammino personale doloroso, pieno di dubbi, cadute, smarrimenti, ma anche intriso di una speranza infinita nell’uomo, nella sua capacità di ascoltare se stesso e il prossimo, di avere fiducia nella vita e credere fino in fondo alla dignità e alla pietà che vincono sull’odio. Le canzoni di Bulat Okudžava sono state per molti russi una casa, un porto sicuro in cui sentirsi compresi e perdonati, per riconoscersi e cercare di diventare migliori.
Grazie all’infaticabile passione di Alessio Lega, uno dei migliori cantastorie italiani di oggi, il messaggio di Okudžava arriverà presto anche in Italia con un disco che contiene i capolavori del bardo russo tradotti e interpretati in italiano, a memoria di un poeta che continua ad abitare in mezzo a noi.
Breve è una canzone, come vivere
dentro il viaggio dove tutto è mobile
ha parole fatte per trafiggere
ma una melodia che è quasi nobile
Sorge dal mattino emerge prodiga
non l’hanno allenata per le maschere
sembra una speranza senza delega
un semplice regalo dell’esistere
Esce da un portone, ti perseguita
la canzone breve come vivere
tutto si disperde, tutto seguita
solamente lei permane indomita…
Breve una canzone è come vivere
dentro il viaggio dove tutto è mobile
ha parole fatte per trafiggere
ma una melodia che è quasi nobile.
(traduzione di Alessio Lega)