LETTURE/ Italiano e inglese: studiare fa bene ma l’umiliazione non giova a nessuno

- Giovanni Gobber

L'inglese si impone sulle lingue nazionali e le istituzioni sembrano adeguarsi alla tendenza. Lo sta facendo anche il Miur. Ma con quali risultati? GIOVANNI GOBBER

scuola_ministero_istruzione_miur_lapresse La sede del ministero dell'Istruzione (LaPresse)

Per innegabile prestigio e forza contrattuale, l’inglese si impone sulle lingue nazionali e le istituzioni sembrano adeguarsi alla tendenza. Nel bando, da poco uscito, per i progetti di ricerca di interesse nazionale il ministero dell’Istruzione chiede ai partecipanti di redigere il testo del progetto in lingua inglese. Inevitabili le polemiche: studiosi e istituzioni di prestigio ritengono che la decisione ministeriale decreti l’impoverimento funzionale della “lingua nostra”. Dal ministero fanno però rilevare che l’italiano non è stato escluso, poiché si lascia la libertà di sottoporre anche una seconda versione della domanda, nella lingua nazionale. Resta il fatto che il testo in inglese è obbligatorio. Quale è il senso di tale decisione? Perché è stata presa? 

Soprattutto nelle hard sciences, diverse ragioni muovono a usare l’inglese: la comodità, la visibilità e il prestigio, il senso di appartenenza. La comodità: in inglese sono già disponibili termini tecnici e soluzioni stilistiche adeguate alla redazione di un testo scientifico destinato a circolare nella comunità degli specialisti. La visibilità e il prestigio: redatte in inglese, le ricerche sono accessibili alla comunità scientifica internazionale e la reputazione accademica degli autori ne può trarre beneficio. Inoltre, l’adozione dell’inglese è segnale di appartenenza a un gruppo internazionale di specialisti, che tende a escludere chi usi le lingue nazionali.

Di più: nelle università italiane sono attivi anche studiosi che vengono da altri Paesi e che avrebbero minori difficoltà con l’inglese che con l’italiano (a dire il vero, per insegnare in Italia costoro devono vivere in Italia: forse applicandosi un po’ sono in grado di usare la lingua del Paese che li stipendia).

Tra le ulteriori ragioni, può essere che il processo di verifica e valutazione della qualità dei progetti risulti facilitato dall’uso dell’inglese: è così possibile ricorrere ampiamente a revisori stranieri di alto profilo, che garantirebbero maggiore imparzialità, dato che, probabilmente, non hanno interesse a prendere posizione nei conflitti fra cordate accademiche italiane (questo però non difende dai rischi di pregiudizio ideologico. Chi sceglierà i revisori stranieri? Con quali criteri di rappresentatività dei diversi punti di vista?).

Non si dimentichi che, per raccogliere fondi da organismi internazionali, gli studiosi già ora redigono progetti in inglese. No English, no money. Questo va bene, se la pecunia arriva dall’estero. Se viene dal contribuente italiano, forse è il caso di spiegare (anche agli elettori…) i motivi di una scelta di politica accademica e culturale che può avere effetti nel lungo periodo, quando saremo in pensione o al cimitero (o cremati e le ceneri disperse da qualche parte): per le istituzioni italiane, in Italia la lingua delle scienze non sarà più l’italiano. Vi è il rischio che, per accontentare il ministero, si scriva in un inglese meccanico, fatto di espressioni assemblate sull’esempio di altri testi in circolazione tra gli specialisti. Poi, dato che la gran parte di docenti e ricercatori in Italia è di lingua italiana, si ricorrerà al code mixing: frasi con costruzione italiana e terminologia mezza inglese. Non si capisce, ma ci si adegua, ovviando a una decisione dal sapore provinciale, che sottopone la lingua nazionale a un’umiliazione simbolica (ed è un grave errore! A volte i simboli risvegliano la voglia di combattere).







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