Oggi si svolgerà in piazza San Pietro la canonizzazione di Paolo VI all’interno del Sinodo dei vescovi dedicato ai giovani. Si tratta di un evento molto atteso che viene celebrato nel cinquantenario dell’Humanae Vitae. E proprio sui temi dell’enciclica forse più controversa e incompresa di Giovanni Battista Montini si concentra il nuovo libro di Giacomo Scanzi, uscito in questi giorni per i tipi di Studium. Il volume, dal titolo Paolo VI e il Novecento. Una poetica della vita (Studium, 2018) ha il merito di portare alla luce “l’inno all’ amore” che sono stati la vita e il pensiero del pontefice. Quella di Montini è una vita segnata dall’amore, prima quello della famiglia in cui cresce e che egli avrà sempre a immagine e modello, poi l’amore vissuto nella vocazione sacerdotale e infine l’amore per la Chiesa che egli non si stancherà di riaffermare fino alla fine.
Certo, il giornalista non manca di far notare che “amore” resta la parola più usata e talvolta distorta del nostro tempo che spesso ne fa “una narrazione che illude, che diverte, che schiaccia l’esperienza più grande ed umana al livello della caricatura, della barzelletta” e si chiede “sappiamo noi veramente che cosa è l’amore?”. Quello di cui parla Montini non è la passione istintiva, ma unione di carità e libertà, di volontà e intelligenza, poli inscindibili dell’amore autenticamente umano. La modernità, affermava l’allora arcivescovo di Milano, aveva portato nell’uomo l’illusione di un’autodeterminazione che manipolandolo lo rendeva schiavo. Al contrario, per Montini l’amore si può imparare soprattutto a partire dalla coscienza di “essere stati amati”. A questa affermazione si lega la centralità del tema della vita, che ha la sua più compiuta espressione appunto nell’Humanae Vitae. Per Montini infatti il segno più incrollabile dell’amore di Dio per l’uomo è il dono della vita stessa che resta “nonostante i suoi travagli, i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze, un fatto bellissimo, un prodigio sempre originale e commovente”.
Il libro non è una biografia, anche se Scanzi non tralascia il racconto della vita di Montini dagli anni bresciani fino al pontificato; l’intento è più ambizioso ed è quello di mostrare alcuni degli snodi essenziali della ricerca e della produzione montiniana attraverso una selezione di testi non arbitraria ma certamente personale. La narrazione si svolge in tre parti: il rapporto tra Montini e la modernità, il tema della vita e quello della morte. Emerge un confronto drammatico tra Montini e il suo tempo che egli, ancora arcivescovo, descrive come una fase di vera mutazione antropologica dell’uomo. Paolo VI è il pontefice chiamato a traghettare il Concilio verso la sua conclusione, lui che fin dai suoi anni giovanili aveva sentito la necessità di un aggiornamento della Chiesa e l’ansia della ricerca di un linguaggio moderno che potesse parlare al cuore dell’uomo.
Eppure Montini non manca di osservare gli effetti distruttivi della modernità che egli denuncia ripetutamente nei suoi testi, mettendo in guardia la Chiesa dall’assumere il linguaggio e la mentalità del mondo. La sua visione sembra spesso cedere al pessimismo, tentazione che si rompe però ogni volta che Montini torna a parlare dell’uomo e della sua natura che fin dalla lettera pastorale Sul senso religioso era stata al centro delle sue riflessioni. Ed infatti la frattura della modernità sembra potersi ricomporre proprio a livello del soggetto, nell’uomo moderno che, anche se inconsapevolmente, afferma Montini, non smette di attendere Dio.
In questa visione di amore sull’uomo e sulla vita sta forse, per Scanzi, l’insegnamento più prezioso di Paolo VI insieme a quella che l’autore chiama “la visione epica della vita, la sola che — per Montini — possa garantirne il senso, anche nell’ordinaria esistenza, umile e povera”.