Roberto Gabellini, già traduttore di Charles Péguy, per empatia spirituale con una parola nascente dalla grazia della terra e del cielo di Francia, ha recentemente consegnato alla lingua italiana Quattordici preghiere e La chiesa vestita di foglie di Francis Jammes (1868-1938). Le due raccolte, rispettivamente uscite nel 1898 e nel 1905, vengono ospitate da Raffaelli Editore nella collana “Poesia contemporanea” (dicembre 2017).
Vissuto nella vasta campagna occitana, tra i muli degli alti Pirenei francesi e i vigneti blu della Guascogna, cresciuto nel clima del simbolismo francese di Mallarmé e Debussy, il poeta stringerà solide amicizie prima con André Gide e Arthur Fontaine, poi trentenne con François Mauriac e Paul Claudel; dal matrimonio con Geneviève Goedorp, figlia di un ufficiale di Versailles di origini picarde, avrà sette figli in dieci anni.
L’assenza straziante vissuta dai “maudits” e la bellezza sensuale degli “esteti” in lui non temono di essere preludio di un’attesa carnale della grazia. Una grazia che sboccia dalla terra, come i versi di questo poeta campagnolo, che sorprendono in ogni seme dei campi le doglie del parto dell’eterno.
Io sono creato non per la vita moderna, ma per la tenda e per l’esistenza patriarcale, e per la tribù, la caccia, la pesca e le greggi. Odio Babilonia e le sue nuove case. […] Mi sarebbe piaciuto poter guardare, riunire nella mia mente, in qualsiasi momento, la mia famiglia, come un pastore che non ha nemmeno bisogno di contare il suo gregge per vedere se gli manca una pecora! Ah! vivi così! nella non separazione di fronte a Dio, lontano da un secolo in cui quasi tutto è deviato dal suo vero fine.
Le Quattordici preghiere, come le 14 stazioni del Calvario, sono semi piantati nella fedele terra di Francia che scoppiano in grappoli maturi sotto un sole che “si mangiano le cicale”.
Jammes cerca Dio e lo trova in ogni fragile istante del più semplice dei suoi figli, perché è l’istante, non l’altrove, che racchiude il mistero. La poesia di Jammes è piena di quella “durata” che andava facendosi strada tra Bergson e Péguy: l’istante, con tutto il suo peso carnale, che vive nello sguardo di Dio.
Mio Signore, (….)
Voi vedete la distesa fino al blu dell’orizzonte,
tra il bosco che scintilla e il ruscello senza posa,
del grano, del granoturco e dei vitigni ritorti.
Un grande oceano di pace che sembra non finire
(…) Com’è dolce, mio Dio, la vita che oggi ricomincia,
come ieri e come tutti i giorni.
Allora la poesia-preghiera di Jammes chiede la stessa grazia del mattino/ quando i conigli si vanno a pettinare nella rugiada ancora rosa.
Con la seconda raccolta, la Chiesa vestita di foglie, la campagna diventa il luogo dell’evento: fiori, cespugli, colline e ruscelli sono la struttura stessa della chiesa in cui Dio si fa pane attraverso un rosario di misteri botanici e zoologici:
Mio Dio, ora, io vedo che ogni cosa
Porta un proprio mistero e Voi lo conoscete.
Così un sasso e questa rosa,
questa donna e questo bacio.
(…) Padre mio, venite più vicino. Maestro, vi prego,
fatevi sentire, come il vento che fa lacrimare.
E se il poeta — ovvero l’uomo — non potrà mai liberarsi dall’inquietudine abramitica di un mistero che seducendo si ritrae perché anche la libertà faccia la sua parte (cfr. 17), sente che Dio sta arando il suo cuore (cfr. 23) e l’albicocca spunta già tra le foglie.
La traduzione del poeta riminese Roberto Gabellini è un atto sincero di ri-creazione, situato interamente nelle corde dell’autore, perché come lui abita tra l’ascolto del silenzio e la semplice umiltà di uno sguardo.