Ormai sono passati diversi giorni dalla polemica sollevata dall’on. Giorgia Meloni contro Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino. In un epoca come quella attuale, in cui tutto deve avvenire nel più breve tempo possibile, mi sono preso del tempo per riflettere e analizzare più nel dettaglio quanto avvenuto scoprendo che l’ignoranza palese è, forse, meno dannosa di quella nascosta.
Il motivo del contendere è conosciuto: la leader di Fratelli d’Italia ha protestato contro la promozione organizzata dal Museo dedicata a tutti gli arabofoni. Affronto imperdonabile per lei, opportunità magnifica per lui. Bisogna ricordare che la promozione in questione è attiva ormai da diversi mesi, ma si sa che in campagna elettorale ogni scusa è buona per scendere nell’agone politico e farsi un po’ di pubblicità.
In un video, divenuto in breve tempo virale, si vede la parlamentare romana discutere animatamente con Greco, davanti all’entrata del museo, accusandolo di “razzismo al contrario” per aver discriminato chi arabo non è. Un litigio ai limiti del raccapricciante, nel segno del più autentico trash nostrano. Inutile soffermarsi ulteriormente sul gravissimo scivolone dell’on. Meloni, rea di aver confuso etnia araba con religione islamica (l’eterno spauracchio della destra). Un errore tanto più grossolano se a farlo è un politico (la Meloni) che sul proprio profilo Twitter mostra fieramente la lettera araba Nun (iniziale di “Nazareno”), divenuta simbolo dei cristiani perseguitati in Medio oriente, anch’essi di lingua ed etnia araba. Una caduta di stile da parte della Meloni, piegata al volere di quella parte del suo elettorato composta da anti-islamici “a priori” che hanno fatto della cecità e dell’ignoranza il loro tratto distintivo.
Il capace ed educato Christian Greco ha quindi avuto gioco facile della Meloni e del suo entourage dimostrando una buona capacità dialettica e una calma invidiabile. Ovviamente l’errore dell’onorevole è stato così evidente e lampante da essere immediatamente (e giustamente) presa di mira dal web e da una buona fetta dell’opinione pubblica.
Una volta fatto notare l’ovvio però, occorre anche svelare ciò che ovvio non è. Riesaminando tutta la questione sono sorti in me alcuni dubbi che desidero porre all’attenzione di chi legge. Premetto fin da subito che nessuno osa qui mettere in dubbio le evidenti capacità imprenditoriali del dott. Greco, che ha portato il Museo Egizio a triplicare il proprio fatturato in pochi anni.
Sul sito del Museo Egizio viene descritta la promozione dedicata ai “nuovi italiani” (definizione già di per sé contestabile). Subito salta all’occhio un dettaglio: “Per usufruire della promozione è necessario esibire il documento di identità in biglietteria“.
Su quale documento di identità è scritta la lingua che uno parla? Possibile che anche il direttore del Museo Egizio sia incappato in generalizzazioni nient’affatto dissimili da quelle fatte dalla Meloni?
Si parla di lingua araba. Stento a credere che il direttore di un Museo Egizio ignori il fatto che la cultura araba non c’entra nulla con l’Antico Egitto. E i primi a saperlo sono proprio i moderni egiziani. La prima dinastia di faraoni inizia nel 3000 a.C., le armate califfali provenienti dall’Arabia giunsero ad Alessandria soltanto nel 641 d.C. Tre millenni di storia e di arabi nemmeno l’ombra. Prima di loro ci furono i bizantini, poi i romani; e prima ancora i macedoni di Tolomeo e Alessandro Magno, per non parlare dei berberi e dei numidi che molto più degli arabi hanno contribuito alla produzione dell’arte egizia contenuta nel museo di Torino. Di arabi non vi è proprio traccia, con buona pace del dott. Greco che di queste cose è certamente consapevole. Ragionando per assurdo dovremmo dunque aspettarci sconti per cittadini provenienti da Skopje o da Atene. Nulla di strano sarebbe accaduto se a fare una promozione del genere fosse stato il Mao (Museo di Arte Orientale) che sta a circa 15 minuti a piedi dal Museo Egizio e che contiene pregevoli capolavori di arte arabo-islamica. Ma il buon senso, si sa, non è di questo mondo.
Cito sempre dal sito del Museo Egizio: “Un patrimonio museale che […] ha la precisa volontà di avvicinare questa ricchezza a coloro che in esso possono trovare radici, identità e orgoglio”.
Non si capisce perché un cittadino saudita, o qatariota, o marocchino dovrebbe ritrovare radici, identità e orgoglio in un museo che contiene reperti appartenenti ad una cultura che con la propria non ha nulla a che vedere. L’errore del direttore non è solo di carattere etnico, ma anche linguistico: i faraoni parlavano l’antico egizio, una lingua antichissima di cui si hanno testimonianze fin dal 3000 a.C., a partire dal V secolo mutò in demotico per concludere infine la sua vita nel copto (che oggi sopravvive soltanto nelle liturgie dei cristiani d’Egitto). Spiace per il direttore Greco, ma la lingua araba è altra cosa.
E qui viene il bello. La già citata frase ripresa dal sito, che certamente sarebbe piaciuta all’on. Meloni, ricalca un’ideologia prettamente nazionalista, nata in Egitto alla fine del XIX secolo e che va sotto il nome di faraonismo. Un’ideologia che ricercava le proprie radici proprio nella millenaria tradizione dei faraoni per differenziarsi dal resto del mondo arabo. Storicamente, infatti, gli egiziani si sono sempre considerati distinti dagli arabi; la sua continuità territoriale, la sua storia unica esemplificata nel suo passato faraonico e la sua lingua e cultura copta, avevano già trasformato l’Egitto in una nazione per secoli. Gli egiziani vedono se stessi, la loro storia, cultura e lingua come specificamente “egiziani” e non “arabi”. Si potrebbe obiettare che l’Egitto di Nasser fu la culla del panarabismo. Niente di più vero! Ma la genialità del politico egiziano fu proprio quella di riunire in un unico pensiero politico il faraonismo (tipico egiziano) con il panarabismo.
Per spiegare in maniera più dettagliata che cosa sia il faraonismo prendo in prestito le parole di un gigante della letteratura quale fu l’egiziano Taha Hussein (candidato per ben 14 volte al Nobel):
“Il faraonismo è profondamente radicato nell’animo degli egiziani. Rimarrà così, e deve continuare e diventare più forte. L’egiziano è faraonico prima di essere arabo. Non si può chiedere all’Egitto di negare il suo faraonismo perché questo sarebbe come dire: Egitto, distruggi la tua Sfinge e le tue piramidi, dimentica chi sei e seguici! Non chiedere all’Egitto più di quello che può offrire. L’Egitto non diventerà mai parte di qualche unità araba, nemmeno se la capitale di questa unità dovesse essere il Cairo”.
Siamo di fronte al paradosso più estremo: un partito nazionalista (italiano) si infuria contro il direttore di un museo che si difende dalle accuse utilizzando una linguaggio nazionalista (egiziano) riuscendo così a passare per anti-nazionalista (italiano).
Il Museo Egizio avrà pure prezzi scontati, ma a farne le spese è sempre la nostra intelligenza.