Il 16 marzo 1993 si spegneva Giovanni Testori. Molti hanno avuto la fortuna di vederlo e di incontrarlo. Direttamente o attraverso le sue opere. E' stato così per DANIELA IUPPA

Ognuno ha una propria, personalissima, costellazione di parole amate. Nella mia ha un posto speciale un avverbio che più comune non si può: “ecco”. È una parola tutta sorpresa per qualcosa o qualcuno che si impone improvvisamente; è una parola in cui riecheggia il colpo di un evento che inchioda. Ed è una parola, soprattutto, che esprime l’improvvisa e solare chiarezza di un oggetto del desiderio prima solo confusamente atteso. È così confuso, infatti, il desiderio fino a quando non gli appare ciò di fronte a cui dire: “Ecco”. “Ecco. Questo cercavo. Questo aspettavo”.



È accaduto così, ormai dieci anni fa: seguivo con assiduità e crescente interesse i corsi di letteratura teatrale italiana di quello che poi sarebbe diventato il mio professore, Fabio Pierangeli. Quel pomeriggio l’aria autunnale dell’aula è stata sferzata dalle parole, tratte dall’omonimo monologo del 1967, di Erodiade, la moglie del tetrarca Erode, il cui corpo è teatro della lotta tra l’antico e il nuovo, tra la religione degli dei lontani e quella del Dio vicinissimo annunciatole da Giovanni Battista, di cui si innamora e che fa, tuttavia, decapitare. Alla sua testa mozzata rivolge parole ora implacabili — “oscena idiozia di un Dio di carne e sangue”, “No, gli dei non si generano come uomini o cani” — ora dolcissime: “Mio cervo; muschio forte; valle verdissima e mia; mia pineta di gioia; rami grandi d’amore… Prendimi, se puoi. Ho voluto morire perché tu non c’eri più e perché, per me, senza di te non c’era più nessun senso, nessuna luce e nessuna speranza. Io non sono più Erodiade e nemmeno la sua parola. […] Per te e con te, sono l’umana bestemmia, l’inesistenza, la cenere, il niente”. Con queste vesti di carne e nostalgia mi si è fatto incontro per la prima volta Giovanni Testori.



Proprio come un amante infiammato dall’attesa, mi sono buttata a capofitto nel mondo testoriano: e, affondando, quanti altri ne ho trovati: Iacopone da Todi, Alessandro Manzoni, il Pitocchetto, Francis Bacon, i Sacri Monti, il lago di Como; ma, come solo i grandi amori sanno fare, tutto è entrato attraverso lo sguardo di Testori. Sguardo sempre originale, mai scontato; sguardo figlio di terra e pampurzini (ciclamini) e, insieme, di lontanissime altezze. Ho seguito Testori nelle peripezie della sua anima e, quindi, nelle peripezie dei suoi tentativi formali: narrativa, poesia, giornalismo, critica d’arte, pittura, teatro, perché tutto ha sperimentato nei suoi cinquant’anni di vita artistica, da quando, appena diciottenne, ha scritto un articolo sul pittore Giovanni Segantini, a quando, nel letto d’ospedale, a pochi mesi dalla morte, ha concluso il capolavoro del suo teatro, i Tre lai. Mai pago di una forma, sempre pronto a ripensarla e sempre libero di sbagliarla.



Sì, forse questo è uno dei doni più cari di Testori alla mia vita: la libertà di sbagliare, di mettere il piede in fallo: “Si ha il dovere di amare, e aggiungo, anche quello di sbagliare. Perché se si fa qualcosa, non si può fare a meno di sbagliare. Tutta l’arte è uno sbaglio: di grazia, di amore, di pietà”. Se si vive, si cammina, si tenta, si ama, non si può non sbagliare. Forse, solo uno sbaglio ci è chiesto di non fare: quando la vita chiama, quando la vita fa dire “Ecco”, a quell’ecco occorre rispondere. Occorre un “Sì, vengo”, un “Sì, mi lascio catturare e condurre fino a terre ignote e misteriose”, “Sì”, ed è la seconda grande parola della mia costellazione, “Eccomi”. La risposta a una chiamata. Quando la realtà attira, bisogna andare.