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Home » Cultura » Letture e Recensioni » LETTURE/ Tutti migranti: il mare, la terra e un’ideologia “nuova”

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LETTURE/ Tutti migranti: il mare, la terra e un’ideologia “nuova”

Giovanni Gobber
Pubblicato 28 Febbraio 2019
diritto di asilo immigrati

diritto di asilo immigrati

Nel “newspeak” mediale, il nome “clandestino” è considerato “scorretto” ed è sostituito da “migrante”. Il perché di una operazione culturale

Nel Newspeak mediale, il nome clandestino è considerato “scorretto” ed è sostituito da migrante. Alcuni aggiungono l’aggettivo illegale. E sbagliano: tale uso contraddice l’ideologia che sottende a migrante. Quest’ultima voce non va ricondotta al quadro cognitivo in cui rientrano i due participi di emigrare e i parenti che si addensano attorno a immigrare. Del pari, il fenomeno chiamato migratorio, che si svolge per flussi, non è accostabile ai denotati di emigrazione e immigrazione. È vero che la radice è comune a tutte le parole finora citate: vi è codificata la valenza generica di “movimento”; ma questa è sviluppata ulteriormente dai prefissi. In emigrare e famiglia troviamo e-, che segnala “uscita”; nel campo lessicale che ruota attorno a immigrare c’è in-, che vale “entrata, collocazione in uno spazio”.


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Quest’ultimo verbo, tra l’altro, è di uso antico, mentre emigrare ha successo soprattutto dopo gli eventi indicati dal termine rivoluzione francese. Non è questa la sede per denunciare l’uso discriminatorio del maschile émigré, che offende la lotta delle émigrées: basti rilevare che la parola si riferiva a coloro che scappavano dalla Francia per salvare il collo e pure il capo dai fans di Rousseau, non ancora evoluto a piattaforma.


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Emigrare e immigrare hanno preso in seguito un uso legato alle vicende economiche: per vivere, gli immigrati si insediano in una società per loro nuova, gli emigranti si allontanano dal luogo delle proprie radici. Una volta lasciatolo, diventano emigrati, ma il legame non è rescisso. Un altro punto di vista mette in rilievo il nesso con la società di arrivo: e si parla di immigrati, perché hanno compiuto il viaggio nel mondo, per loro, nuovo. Emigrante ed emigrato sono nomi derivati da aggettivi sostantivati, che a loro volta sono formati da participi. In queste forme domina il punto di partenza del viaggio, che può essere visto nel suo svolgersi o nel suo concludersi. Invece, nella forma immigrato è in primo piano il punto di arrivo, che può essere colto solo come conclusione; per questo, è diffuso solo il nome riconducibile al participio passato, che ha valenza di aspetto compiuto.


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A differenza delle forme con prefisso, il nome migranti è usato per denotare indifferenza a una patria, a radici, a un luogo di origine, a una società di arrivo. Esseri umani migrano, si muovono sulla Terra, deçà, delà. La forma presente del modo participio mette in primo piano il movimento e lascia sullo sfondo l’inizio e la conclusione: è dunque un muoversi disancorato dalle coordinate spaziali e anche temporali, poiché non è previsto un luogo di partenza e il punto di arrivo è sempre provvisorio.

Migrante denota chi non ha patria, dunque non emigra; e neppure mira a collocarsi e integrarsi in un’altra comunità umana, dunque non immigra. Solo il presente può servire a cogliere questo carattere; è arduo immaginarsi un migrante che sia migrato: il movimento non ha mèta.

Il participio passato si trova, peraltro, in altri ambiti di discorso, per esempio, quando si riprende uno stanco stilema per narrare di qualcuno che è migrato verso altri lidi – come fanno gli uccelli migratori, che si muovono seguendo un istinto e un programma di viaggio, in cui è incluso il ritorno. Nel muoversi dei migranti vi è invece la stabilizzazione del provvisorio: nulla è dato, nulla è concluso. Diversa è la vicenda degli immigrati e degli emigrati: costoro hanno una storia e fanno progetti per il futuro; non si privano delle radici, che rielaborano in relazione con il contesto sociale in cui, bene o male, si inseriscono e operano.

Migrante è forse la parola chiave di un’ideologia nuova, che non è stata elaborata solo in riferimento ai clandestini, cioè a persone d’ignota identità, che si muovono per entrare illegalmente in un Paese. La parola è pensata per tutti: nel brave new world, anche noi dobbiamo “resettarci” e sentirci migranti: tradizione, cultura, identità non sono considerate pertinenti per definirci; sono irrilevanti anche i progetti di vita che presuppongano realtà sociali stabili e si fondino sul lavoro, come azione realizzatrice di opere, in cui si manifesta la dignità e la libertà creatrice dell’essere umano. Il provvisorio è l’unica categoria ritenuta sensata per l’esistenza: nulla è; e tutto è fluire. Non si è nulla, ma si ha diritto a tutto, senza aver niente, ma solo fruendo di quel che è dato ed è disponibile a tutti. Ben vengano, dunque, i flussi migratori.

Secondo questo modo di vedere, i confini degli Stati devono essere abbattuti perché attestano qualcosa di stabile, che c’è. In una tale prospettiva, sembra accettabile che anche gli Stati siano abbattuti – e con essi le istituzioni; si esita, tuttavia, a proporre un simile progetto, perché ne andrebbe del gettito fiscale. E senza le imposte, versate anche dagli emigrati e dagli immigrati, sarebbe arduo mantenere gli addetti al grande dibbattito.


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