Alla fine si è spaccata; ha ceduto, la fontana di Pescara, inaugurata appena lo scorso 14 dicembre. Il “capolavoro” dell’architetto giapponese Toyo Ito non è durato nemmeno due mesi. Una figura a dir poco penosa. Il vicesindaco del capoluogo Camillo D’Angelo s’è subito affrettato a dire che l’opera verrà presto risistemata. Ci mancherebbe, dal momento che il nipponico autore, intascatosi l’assegno da un milione di euro, ha salutato tutti ed è tornato di corsa in Giappone, là dove gli edifici sono alti 300 e non cinque metri e costruiti per lo più per resistere a scosse sismiche da ottavo grado della scala Richter. La sensazione di presa in giro dunque serpeggia. Nessuno per il momento osa dirlo perché, si sa, l’arte contemporanea non si deve mettere in discussione, ma prima o poi qualcuno griderà che sì, a quanto pare il re è proprio nudo. Non è la prima volta che il nostro Paese ospita opere forgiate dalla sapienza esotica, sborsando fior di quattrini, che poi si rivelano essere non solo misere e poco appariscenti (vogliamo ad esempio paragonare la fontana di Pescara alla Piramide del Louvre?), ma anche incredibilmente fragili.
Molti milanesi ricorderanno che non troppi anni fa, era il 2000, la città meneghina ospitò di fronte alla propria stazione centrale, peraltro questa osannata per davvero da un sacco di architetti stranieri, la cosiddetta “Scultura di Luce” dell’arcinoto quanto radical chic architetto inglese Ian Ritchie. Anch’egli si beccò i suoi bei 66.000 euro, lasciandoci con questa specie di apostrofo policromatico che nel giro di pochi giorni si fulminò e, copertosi in breve di ruggine, terminò la propria infelice apparizione. Ora quest’altra meraviglia si trova depositata nel capannone del teatro Ciak in via Procaccini.
Ci sia permessa una considerazione. Chi scrive non fa di lavoro né il critico d’arte né l’architetto, ma vive in un Paese che possiede alcuni ponti costruiti più di duemila anni fa e che ancora reggono, nonostante i tentativi di restauro spesso più dannosi dell’usura e dei secoli. Inoltre lo stesso Paese, e non ci venga mossa accusa di retorica, qualcosuccia su arte e monumenti la sa.
È dunque davvero il caso di affidarci ad architetti che probabilmente della nostra storia e cultura non sanno un’acca e spendere (tanto) danaro pubblico in opere che, se non quello della bellezza, nemmeno hanno il pregio della maestosità? Forse le proteste rivolte contro le grandi opere dovrebbero concentrarsi maggiormente sulle piccole, almeno finché sono affidate a personaggi che sembrano più interessati al nostro provincialismo cieco e spendaccione anziché ad abbellire il pianeta.