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Home » Esteri » Ucraina » DA KIEV A GAZA/ Quando la politica diventa guerra e smarrisce il senso del “dopo”

  • Ucraina
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DA KIEV A GAZA/ Quando la politica diventa guerra e smarrisce il senso del “dopo”

Dario Chiesa
Pubblicato 16 Aprile 2024
Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato (a s.) incontra Volodymyr Zelensky (Ansa)

Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato (a s.) incontra Volodymyr Zelensky (Ansa)

Ogni guerra è il fallimento della politica. Sia in Ucraina che in Israele. Una lezione non capita dall'Occidente, che manca di un progetto per il dopoguerra

Il modo migliore per vincere una guerra è di evitarla, trovando soluzioni diverse ai problemi esistenti e rinunciando a considerare la guerra uno strumento, sia pure radicale ed estremo, della politica. Sottraendosi così alla famosa frase del generale prussiano von Clausewitz:” La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”. Il punto centrale della questione non è di sostituire la guerra con un astratto pacifismo, ma di potenziare la politica, utilizzandola in modo ragionevole, cioè tenendo conto di tutti i fattori della realtà. La guerra rappresenta non la continuazione ma il fallimento della politica.


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Sotto questo aspetto, è rilevante la distinzione tra democrazie e regimi autoritari, più propensi quest’ultimi a vedere la guerra come un proseguimento, diciamo “normale” o comunque accettabile, della politica. Le democrazie, invece, dovrebbero considerare la guerra una deprecabile eccezione, quando le altre strade sono ormai non più percorribili. In ogni caso, nel ricorrere alla guerra è necessario ipotizzare già dall’inizio le soluzioni per il dopo guerra.


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Interessante, a questo proposito, la conclusione di un recente articolo di Leonardo Tirabassi sul Sussidiario: “La storia insegna poco. Ogni conflitto è diverso dall’altro. Ma qualcosa vorrà dire se gli Stati Uniti, nella seconda guerra mondiale, iniziarono a pensare al dopoguerra, al da farsi una volta caduta Berlino, già durante i primi anni del conflitto”. È interessante, perché questo “pensare al dopoguerra” sembra essere stato del tutto assente nelle numerose guerre condotte dalle democrazie negli ultimi decenni. Si pensi solo alle condizioni caotiche in cui si trovano Libia, Iraq e Afghanistan dopo le guerre di USA e NATO.


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La stessa domanda si potrebbe porre per l’attuale guerra in Ucraina. Qui l’assalitore è l’autocrazia russa guidata da Vladimir Putin, per la quale il dopoguerra è già deciso: annettere i territori comunque conquistati. Per Putin, la guerra è una continuazione della politica, ma va detto che la guerra in Ucraina non è iniziata con l’invasione del febbraio 2022. Nel febbraio 2014 vi è stata l’occupazione russa e successiva annessione della Crimea, seguita dall’insurrezione dei russofoni filorussi in diverse regioni e la continuazione della guerra nel Donbass tra il governo di Kyiv e i separatisti delle due autoproclamate repubbliche. Non vi è dubbio che i separatisti siano stati appoggiati in modo anche diretto da Mosca, ma non è neppure da dimenticare il comportamento aggressivo nei confronti delle minoranze russe da parte del governo ucraino.

In queste prime fasi la politica sembrava poter giocare ancora un ruolo, almeno per il Donbass, come dimostrano gli accordi di Minsk del 2014 e del 2015, il cosiddetto Minsk 2. Quest’ultimo prevedeva come punti principali un immediato cessate il fuoco, la riforma della Costituzione ucraina con il riconoscimento di uno statuto speciale alle regioni di Donetsk e Lugansk, ed elezioni in queste regioni secondo gli standard dell’OCSE. L’attuazione di questi accordi avrebbe reso l’aggressione russa decisamente meno facile e comunque difficilmente sostenibile anche dal punto di vista della propaganda. Mosca è senza dubbio corresponsabile di questa mancata attuazione, ma la responsabilità maggiore ricade sul governo ucraino e su quei governi occidentali, democratici, che si sono guardati bene dal far pressione su Kyiv per la soluzione diplomatica della questione.

Se si guarda al di là della cortina propagandistica di entrambe le parti, questa guerra non ha vincitori. Non lo è senza dubbio l’Ucraina, non più in grado di reggere una prolungata guerra, con la prospettiva della definitiva perdita di territori che, come visto, avrebbe potuto mantenere, sia pure con condizioni non gradite alla parte nazionalista del Paese. Un Paese che esce distrutto da questa guerra, comunque essa finisca, e non solo materialmente.

A Mosca possono anche affermare di aver vinto, sbandierando l’annessione di parte dell’Ucraina, ma anche qui i costi sono notevoli, anche se non si è verificato il disastro per il regime ipotizzato da Washington e alleati. Tuttavia, è prevedibile che il dopoguerra porti a un inasprimento della politica interna, a possibili sollevazioni all’interno della Federazione Russa, come già successo in passato, a un sempre più stretto allineamento con Pechino, non particolarmente gradito al regime russo.

Non migliore si presenta la situazione per gli “alleati” europei, per quanto riguarda la coesione tra i vari Paesi, il peso economico del riarmamento e la continua crisi energetica, con pesanti conseguenze sull’economia. Particolarmente per alcuni Paesi, in primo luogo l’Italia. A questo si aggiunge la disastrosa situazione nel Medio Oriente che, oltre una possibile recrudescenza di attentati terroristici all’interno dell’UE, incrementa in modo netto la possibilità di un’esplosione globale, essendo i protagonisti dello scontro meno affidabili, comunque la si pensi, di Mosca e Washington. E ciò riguarda anche Israele, finora considerato l’unica reale democrazia della regione.

Non si può che concordare con Tirabassi quando afferma che per la guerra a Gaza lo scenario è ancora più caotico. Qui la guerra, più che una prosecuzione, sembra essere solo un altro aspetto della politica, e ciò vale, purtroppo, non solo per Hamas, bensì anche per l’attuale governo israeliano.

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