Per fermare la guerra in Ucraina si deve favorire qualsiasi tentativo di pace. Il no alla guerra chiede diplomazia e conversione
“Ho riscoperto Dio e fede, e solo adesso sono nella pace dentro di me, nonostante la paura umana che la vita fisica possa interrompersi nell’istante che viene”. Sono parole dei militari al fronte.
È davanti a testimonianze come questa che il nunzio apostolico a Kiev, monsignor Visvaldas Kulbokas, lituano, esorta a sostenere qualsiasi tentativo di pace. Mai le armi devono sostituire la diplomazia, perché la guerra è indegna dell’umanità, spiega l’arcivescovo al Sussidiario alla vigilia di questa Pasqua.
Ma il suo è anche un appello alla Chiesa. “Quanto più noi rimarremo concentrati sull’annuncio del Vangelo, tanto più saremo in grado di aiutare milioni di nostri fratelli e sorelle a valorizzare prima di tutto il bene vero, e non quello passeggero. Solo così potremo dirci figli di Dio e fratelli del Figlio di Dio risorto”.
Monsignor Kulbokas, siamo in una fase di trattativa, in un modo o nell’altro, tra alti e bassi. Come dobbiamo giudicarla?
È l’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump a premere sulle trattative, ma persino essa medesima afferma che siamo soltanto allo stato “esplorativo”, cioè preparatorio delle trattative. Personalmente, ritengo che in sé questo tipo di iniziativa sia necessario, e che sia imprescindibile farlo con molta energia ed insistenza, perché è difficile sperare che la guerra si risolva da sé.
Ci spieghi meglio.
Ritengo che non sarebbe moralmente fondato concentrarsi sulle critiche all’iniziativa per gli errori a volte anche gravi che si fanno. Se nessun altro finora era riuscito a dimostrare la stessa energia nel tentare le trattative, allora è troppo tardi mettersi a giudicare chi è stato il primo a farlo.
La Santa Sede ed alcuni Paesi e gruppi di Paesi hanno esplorato possibilità di trattative durante i tre anni scorsi, ma in questo caso ci vuole la partecipazione almeno di una tra le potenze mondiali di primo livello, come sono gli USA, perché altrimenti mancano gli strumenti; militari, economici e politici.
Sul campo, al fronte, nel Kursk o altrove, si continua a morire. Lei stesso però ha detto che occorre tempo. Ci sono fatti o persone da guardare che possono indurci ad avere speranza?
La guerra mi obbliga, quale credente e uomo di Chiesa, a cercare di capire il significato di tutto ciò che succede, perché tutti gli eventi del mondo in ultima istanza possono accadere soltanto quando il Creatore lo permette.
Avrei moltissime cose da ridire nei confronti del presidente americano Trump, ma chi altri abbiamo oggi in quella posizione, se non lui? Quindi ritengo che l’unico atteggiamento possibile sia quello di cercare a trarre il meglio, pur se limitato, da ciò che egli fa.
Come si può favorire il raggiungimento della pace sul piano politico? Lavorando sulle garanzie di sicurezza, la cessazione dei combattimenti, lo scambio di prigionieri? O altro?
Papa Francesco e suoi principali collaboratori hanno più volte sottolineato la necessità di favorire un clima di dialogo. Questa non è un’espressione astratta, perché senza di esso – e ci vuole davvero un clima del tutto particolare – il dialogo è impossibile. La Russia sembra convinta di poter avere la meglio sul piano militare, ed è difficile sperare che essa spontaneamente rinunci a tale pretesa, anche se con la grazia di Dio tutto è possibile.
E l’Ucraina?
L’Ucraina, invece, non può confidare nella propria forza militare, e quindi deve appoggiarsi sul rispetto del diritto, da parte di tutti, e per ora non vede come ciò possa realizzarsi. Certo, anche l’Ucraina potrebbe dire: ci affidiamo completamente a Dio, perché sia Lui a difenderci in tutti i sensi, politico, militare e diplomatico. Ma anche in questo caso noi umani dobbiamo fare la nostra parte: Dio non ci ha creati per essere passivi e cogliere esclusivamente quei frutti che ci cadono sulla testa direttamente dall’albero.
Che cosa occorre, in questa fase?
La speranza mia è che le principali potenze del mondo siano attive, e insieme alla comunità internazionale fissino dei tasselli molto chiari, e primo tra tutti un univoco “no” alla guerra, qualsiasi tipo di guerra.
Ha testimonianze di prigionieri liberati dai russi?
Ho sentito personalmente diverse testimonianze. Purtroppo, alcune di esse sono così forti che non le posso riportare in pubblico. Qui in Ucraina, anche personalmente, ho avuto modo di visitare prigionieri di guerra russi. Faccio un appello: che alla Croce Rossa Internazionale sia permesso l’accesso a tutti i prigionieri, militari e civili. Sarebbe il primo passo per fare in modo che il trattamento dei prigionieri corrisponda al diritto umanitario internazionale.
Lei ha osservato, in un recente intervento, che una delle conseguenze più brutte è quella di abituarci alla guerra, che invece riguarda tutti, perché ne siamo “tutti vittime”. Cosa significa?
L’abitudine fa sì che la guerra, con tutto ciò che essa comporta – uccisioni, distruzioni, mancato rispetto del diritto – venga percepita quasi come se fosse una normalità. In questo modo il male della guerra non è soltanto qui ed oggi, ma dà cattivo esempio e rafforza i cattivi precedenti. Da qui, il passo ad una situazione mondiale in cui non saranno più i popoli a decidere le proprie sorti ma soltanto coloro che sono militarmente più forti, è molto breve.
L’Unione Europea ha intrapreso la strada del riarmo. È la via giusta?
Papa Francesco ha più volte sottolineato che le armi sono incapaci di portare la pace. A mio avviso è un richiamo, quello del Santo Padre, che non va letto nel senso politico o militare, anche se chiaramente il traguardo è quello di raggiungere una pace nel mondo in cui la necessità di possedere le armi sia molto diminuita.
Il Papa fa un discorso più profondo: le armi ed altri strumenti simili causano comunque morte, anche quando vengono usate da chi si difende. Con le armi in ogni caso si combattono soltanto i sintomi delle malattie nelle relazioni tra i Paesi. È per queste ragioni che la Chiesa, e io personalmente, ci appelliamo ad un impegno prioritario per un’attività politica e diplomatica più profonda, più incisiva, in modo che le guerre siano fermate alla radice.
Oggi la Chiesa ricorda un fatto clamoroso: Cristo è risorto. In che modo questo evento unico nella storia può cambiare questa gigantesca tragedia?
Proprio durante la guerra, come nel caso di persone che per malattia o altre cause si trovano nel rischio imminente di morte, la Risurrezione di Gesù ha un significato non solo spiritualmente, ma anche psicologicamente immenso.
Ho sentito diverse testimonianze di militari che assistono i loro compagni gravemente feriti negli istanti che precedono la morte: il dono più grande che si può dare loro in quel momento è il perdono dei peccati. Per questo la presenza dei cappellani militari al fronte è sempre un dono incalcolabile per la salvezza delle anime.
Cosa le dicono i soldati?
Citerò una testimonianza per tutte: “ho riscoperto Dio e la fede, e solo adesso sono nella pace dentro di me, nonostante la paura umana che la vita fisica possa interrompersi nell’istante che viene”.
La speranza cristiana vera, quella che “non delude”, può avere spazio in questo mondo?
Ho già menzionato l’importanza della missione dei cappellani, ma nel tempo di guerra è vocazione di tutta la Chiesa portare la speranza. Quanto più noi, come Chiesa, rimarremo concentrati sull’annuncio del Vangelo, e non tanto su aspetti politici, economici, sociologici, tanto più saremo in grado di aiutare milioni di nostri fratelli e sorelle a valorizzare prima di tutto il bene vero, e non quello passeggero.
Ecco, le finalità della guerra sono sempre passeggere, indegne dell’umanità. Solo il bene vero, vita, rispetto, giustizia, pace e amore, sono degni di essere nostri obiettivi di vita. Solo così potremo dirci figli di Dio e fratelli del Figlio di Dio risorto.
(Federico Ferraù)
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.