La cattura di Matteo Messina Denaro del 16 gennaio scorso in una clinica di Palermo porta con sé la consueta scia di polemiche, da sempre collegate a questo tipo di operazioni. Soddisfazione, ovviamente, grandi elogi ai protagonisti, magistrati e carabinieri, soliti proclami e qualche sfilata, ma anche una succulenta dose di critiche e di interrogativi.
Proviamo a fare un po’ di chiarezza, dopo qualche giorno, a mente quasi fredda.
Ho avuto la fortuna di coordinare qualche anno fa una delle catture più delicate dell’epoca. Michele Zagaria, l’ultimo capo del cartello mafioso dei Casalesi, era il secondo in ordine di importanza dei latitanti da catturare, proprio dietro Messina Denaro.
Zagaria scappava da 16 anni e si nascondeva in bunker super tecnologici di cui aveva disseminato il suo paese in provincia di Caserta, Casapesenna, e quelli limitrofi.
Anche la sua cattura ebbe la sua vena di polemiche, non tanto per tempi e modi, quanto su una famigerata pennetta usb, mai rinvenuta e con molta probabilità mai esistita, che avrebbe contenuto tutti i segreti del boss e che sarebbe sfuggita alle perquisizioni, eseguite dalla polizia giudiziaria.
Ho coordinato le indagini sulla cattura negli ultimi tre anni ed insieme agli investigatori abbiamo elaborato e sperimentato modelli operativi efficacissimi che poi sono finiti nei libri universitari.
Quando ho appreso la notizia della conclusione della fuga del superboss siciliano, ho provato di nuovo quel profondo senso di soddisfazione e di orgoglio nell’essere magistrato che avevo già sperimentato qualche anno prima. Ho espresso pubblicamente grande soddisfazione e contentezza perché, come mi disse Zagaria nella profondità del suo bunker, lo Stato vince sempre.
Mi hanno fatto riflettere, però, molti dubbi, probabilmente legittimi, che tante persone mi hanno voluto esprimere. Sul fatto che il boss mafioso sia stato preso solo dopo 30 anni, trascorsi nel suo paese, molto malato e addirittura, secondo alcuni, solo perché si sarebbe fatto catturare. Io ho creduto e credo sempre nello Stato e lo dico senza alcuna esitazione, soprattutto ai ragazzi, nelle scuole. Per loro e per i molti scettici val la pena di approfondire cosa significa cercare un latitante. E qualche remora può essere superata e qualche opacità chiarita tracciando le similitudini e le differenze tra le due attività di Napoli e di Palermo.
Del resto, come ho anticipato, parliamo del numero 1 (Messina Denaro) e del numero 2 (Michele Zagaria) dello speciale elenco dei latitanti mafiosi, tenuto dal ministero dell’Interno.
Una premessa è doverosa: il clan dei casalesi è stato in grado, per la sua capacità di penetrazione e per la sua influenza criminale, di trasformare il nome di una città, affibbiandole un’accezione quasi esclusivamente criminale. Anche mediaticamente oggi dire “casalesi” riporta tristemente subito al clan e non ai cittadini di Casal di Principe, peraltro quasi tutti, invece, persone perbene. Questo è accaduto in Italia solo per i corleonesi, offuscando, per colpa di Totò Riina e dei suoi affiliati, la bellezza di un’altra cittadina, Corleone, ed il buon nome dei suoi abitanti.
Detto questo, non vi è chi non veda che il metodo seguito dai due boss (numeri uno nei rispettivi schieramenti criminali) per sottrarsi alle ricerche da parte dello Stato sia stato sensibilmente diverso.
Zagaria viveva in un bunker quasi inespugnabile, mentre Messina Denaro in un comune appartamento del paese.
Zagaria si spostava con centinaia di precauzioni, addirittura a tratti maniacali, nascondendosi all’interno di doppi fondi delle autovetture, appositamente modificate, con staffette e controlli preventivi di ogni tipo, affidate a decine di affiliati, mentre il boss siciliano comodamente a bordo di una utilitaria col solo autista, un uomo del suo paese, o addirittura da solo.
Un primo interrogativo, sollevato invero da molti, viene spontaneo: era troppo sicuro di sé o andava consapevolmente incontro al proprio destino?
Si è parlato, anche se troppo spesso genericamente, di coperture istituzionali e non ho alcun dubbio a ritenere che Messina Denaro ne abbia avute e ne avesse ancora fino a qualche settimana fa.
Anche su Zagaria si parlò di servizi segreti deviati e di pezzi delle istituzioni asservite alle logiche mafiose. Si pensi che i casalesi poterono contare sul sostegno di numerosi amministratori locali e addirittura di un sottosegretario di Stato, poi scoperto e condannato. Ma io che l’ho fatto e che per fronteggiare ostilità istituzionali di ogni tipo ho adottato imponenti precauzioni investigative, quasi un vero e proprio controspionaggio, mai viste neanche ai tempi della talpa del tribunale di Palermo, posso dire però, con certezza e senza ipocrisia, che non esiste copertura istituzionale che garantisca al 100 per cento il latitante. Singoli investigatori infedeli, al soldo dei mafiosi, ci sono sempre stati e molti sono stati scoperti e condannati.
Ma immaginare una totale garanzia di impunità è molto arduo e ragionare così credo sia solo fuorviante. Questo per una considerazione, se volete, anche abbastanza banale. E cioè che un latitante, così longevo, viene ricercato da tutte le forze di polizia, apertamente o meno, da migliaia di poliziotti, carabinieri, finanzieri e perfino vigili urbani, in quanto la sua cattura rappresenta, oltre che grande motivo di soddisfazione, anche lustro personale e prospettiva di crescita professionale. Una magistratura attenta e presente nelle indagini rappresenta poi un’importante garanzia di limpidezza ed un margine alle illegalità e alle contiguità. Ed immaginare una copertura istituzionale così sofisticata, diffusa e capillare mi sembra oggettivamente impensabile. Altro è la fisiologica difficoltà che si incontra in queste operazioni. Ci sono le enormi connivenze territoriali e gli atteggiamenti omertosi che ovviamente accompagnano fisiologicamente le latitanze strutturate.
Ci sono i depistaggi o gli ostacoli di sorta che possono essere frapposti nelle attività investigative, anche questi assai fastidiosi, ma mai insuperabili.
Nella cattura di Zagaria, a cinque mesi dall’intervento decisivo, il capo della squadra mobile di Napoli fu coinvolto in un rognosissimo intrigo di camorra, venendo allontanato dalla città e dall’indagine in un momento nevralgico, eppure le indagini, seppure con qualche ulteriore difficoltà andarono avanti. Poi, dopo qualche anno, quel funzionario è stato completamente assolto da qualsiasi accusa. Di poliziotti costretti o invitati a mollare la presa anche su Messina Denaro ce ne sono stati e forse colpevolmente solo oggi si ricordano i loro nomi e le loro storie. Ma lì le cose sono andate un po’ diversamente rispetto a Napoli. Coincidenze o oscure strategie? A questa domanda neanche io so rispondere.
C’è poi nelle vicende siciliane sempre incombente la questione legata al 41 bis. Ogni cattura viene collegata ad oscure trame finalizzate alla sua abolizione. Oggi la storia è arricchita anche dal corollario dei rapporti tra mafiosi e fronti anarchici. Anche su questo, non so perché, la cosa non mi sorprende affatto. Da tempo sul tema dell’abolizione del carcere duro si riscontra una convergenza di interessi e di iniziative comuni. Eppure, quel che mi preoccupa di più è la colpevole e connivente assenza di reazioni qualificate. A chi tocca difendere l’istituto, nato per combattere il terrorismo stragista, che Falcone sapientemente applicò ai mafiosi per la loro naturale assonanza eversiva? E prima ancora interessa davvero a qualcuno difenderlo?
Cospito rappresenta il caso di scuola in cui serve davvero il regime del 41 bis per evitare che il terrorista veicoli ai suoi sodali i suoi propositi criminali e i suoi ordini scellerati. Qualcuno, in casi del genere, può ancora dubitare della funzione e della necessità del 41 bis?
Abbiamo iniziato con delle domande e finiamo allo stesso modo. È un buon inizio. Alla prossima per condividere qualche altra riflessione. Sul 41 bis e sui suoi detrattori.
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