La crisi della Francia non è solo politica (Macron), e neppure solamente istituzionale. È l'esito dei trattati europei e di una UE totalmente disfunzionale
La Francia cerca un’altra soluzione, l’ennesima, alla sua crisi politica dopo il naufragio di Lecornu. È stato lo stesso premier dimissionario a spiegare ai francesi che Macron potrebbe oggi nominare un nuovo primo ministro. Sarebbe l’estremo tentativo per non sciogliere il parlamento, evitando così di ridare la parola al popolo.
Il difetto di queste disperate arrampicate sui vetri sta nel cercare una via d’uscita nelle alchimie della “politica politicante”, spiega al Sussidiario Jacques Sapir, economista francese. Ma le crisi sono tre, non una: quella politica, quella della Quinta Repubblica e del suo Presidente, e quella più importante di tutte, ossia le conseguenze istituzionali ed economiche dell’euro e dei trattati europei.
“L’unica soluzione alla crisi francese sarebbe un referendum sulla questione dell’appartenenza della Francia all’UE o, più probabilmente, sulla supremazia delle leggi nazionali rispetto alle normative europee”. Se l’esito fosse positivo, secondo Sapir, lo scioglimento dell’Unione sarebbe inevitabile e Paesi come Italia, Spagna e Portogallo seguirebbero.
Sapir, esperto di economia sovietica e russa, è direttore degli studi nella Scuola Superiore di Studi in Scienze Sociali (EHESS) di Parigi.
Professor Sapir, cominciamo dal debito pubblico record, al 115,6% del PIL. Quanto è grave per la Francia?
Il debito pubblico in Francia non è di per sé un problema. È importante ricordare che un governo non ripaga il debito come un individuo o un’azienda. Quando i suoi titoli giungono a scadenza, ne riemette altri. La verità è che è il costo del debito che conta; sono gli interessi ad essere un problema. Si può avere un debito relativamente basso ma con tassi di interesse esorbitanti, e trovarsi in una crisi finanziaria, come nel caso della Russia nel 1998. Come si può avere un debito considerevole, ma a tassi di interesse molto bassi, e vivere abbastanza agiatamente, come nel caso del Giappone.
Allora dove sta il problema?
Il problema è in realtà questo: la gente vuole il tuo debito? E chi lo vuole? Per ora, i mercati finanziari vogliono il debito francese. Dopo che Fitch ha declassato il rating della Francia, i tassi di interesse sono persino scesi leggermente. Quindi non ci sono difficoltà a breve termine da questo punto di vista. Tuttavia, i problemi ci sono e sono due.
Ovvero?
Il primo è il ciclo di rinnovo dei titoli di Stato. Per rimborsare i titoli emessi a tassi molto bassi, dovremo emettere nuovi titoli a tassi più elevati. Questo aumenterà l’onere degli interessi. Il secondo deriva dal fatto che il 54% del debito francese è posseduto da non residenti. Questo non è positivo e potrebbe creare vulnerabilità per la Francia.
Quali sono i rischi per il Paese?
Il rischio più probabile è un lento aumento dei tassi di interesse, che potrebbe aumentare il loro onere dal 2% al 3% del PIL. Sarebbe quindi necessario trovare metodi per ridurre gli interessi sul rifinanziamento del debito. Questi metodi esistono, ma sono contrari alle regole dell’Eurozona. Si potrebbe quindi ripristinare il livello minimo di titoli di Stato nei bilanci di tutti gli istituti bancari operanti in Francia, una misura in vigore fino agli anni 80, e fissarlo al 30%. Rispetto alla situazione attuale, in cui i titoli di Stato rappresentano il 19,6% del bilancio, ciò aumenterebbe la quota di questi titoli del 10,4%, in un bilancio stimato dalla Banca di Francia a 8.801 miliardi di euro. Ciò rappresenterebbe un aumento di 915 miliardi di euro in titoli di Stato. Tuttavia, la quota detenuta da non residenti è pari a 1.904 miliardi di euro, pari al 56% del totale. Pertanto, questa semplice misura porterebbe a una riduzione di oltre il 50% dell’importo detenuto da non residenti. Il problema – di nuovo – è che questa misura sarebbe illegale all’interno dell’Eurozona.
E se la crisi politica dovesse aggravarsi considerevolmente?
In tal caso potremmo parlare di una sfiducia generalizzata nei confronti del debito francese, che causerebbe un improvviso aumento dei tassi di interesse. Tuttavia, poiché l’amministrazione fiscale è estranea agli alti e bassi politici della Francia – il che significa che le imposte verranno riscosse indipendentemente dalla situazione e quindi la capacità di rimborso non ne risentirà, e questo è un fatto ben noto sui mercati finanziari –, questo rischio è attualmente minimo.
Dopo le elezioni europee e le elezioni politiche del 2024, la crisi si è aggravata. Prima Barnier, poi Bayrou, poi Lecornu. Si pongono due problemi. Partiamo dal primo. Cosa ci vorrebbe per risolvere la crisi politica? Per intenderci, basterebbero nuove elezioni parlamentari?
I problemi politici sono davvero molteplici. C’è, innanzitutto, un problema di politique “politicienne”. Dalle elezioni anticipate indette dal Macron nel 2024, la vita politica francese è divisa in tre “blocchi” di dimensioni pressoché uguali. A sinistra, abbiamo un’alleanza elettorale che i suoi membri chiamano Nuovo Fronte Popolare (NFP) e che riunisce forze politiche molto diverse, che vanno da La France Insoumise (LFI) al Partito Socialista, passando per gli ecologisti (EELV) e i resti del Partito Comunista. Ma, anche se questi partiti possono farsi a pezzi a vicenda – e non si tirano indietro –, rimangono uniti grazie al sistema elettorale francese, il voto a maggioranza a doppio turno.
Poi abbiamo il “Blocco centrale”.
Esatto, ovvero i sopravvissuti del macronismo, divisi in una tendenza di centro-sinistra, rappresentata da Gabriel Attal, e una tendenza di centro-destra, rappresentata da Edouard Philippe. La tendenza di centro-sinistra è rafforzata da un partito realmente centrista, il MODEM, di François Bayrou, che sostiene Macron, ma che non fa parte del Blocco centrale.
Anche la destra si presenta composita.
A destra ci sono i resti del partito che ha portato al potere Nicolas Sarkozy, “Les Républicains” (LR), e il Rassemblement National (RN), affiancato da un piccolo partito di dissidenti del LR che hanno scelto di allearsi con il RN. Va rilevato che Philippe si è espresso a favore delle dimissioni di Macron e che Attal ha dichiarato di “non capire più nulla della politica del Presidente”. Macron si vede quindi abbandonato da due dei suoi ex primi ministri, che guidano due dei partiti più importanti del Blocco centrale. Ora, tutti questi partiti hanno richieste contrastanti.
Continui.
La coalizione di sinistra, naturalmente, vuole misure sociali. E i socialisti sono costretti a seguire LFI ed EELV in una corsa al rilancio a causa della potenziale minaccia di scioglimento dell’Assemblea. Se non ricostituiscono il cartello elettorale NFP, saranno schiacciati dal sistema di voto. Così, un personaggio oscuro, Raphaël Glucksmann, i cui legami con i servizi segreti americani sono probabili e che, senza essere membro del parlamento, guida una fazione del Partito Socialista chiamata “Place Publique”, può affermare nella stessa frase di non volere un accordo politico con LFI ma che tatticamente, in caso di elezioni, parteciperà all’NFP… LR sta ora ponendo condizioni restrittive (sostanziali risparmi di bilancio) per il suo sostegno al Blocco centrale. RN, LFI e i suoi alleati ecologisti sono chiaramente in netta opposizione. In queste condizioni, e di fronte alle richieste contrastanti di ciascun partito, un compromesso è molto difficile. Ma ci sono problemi più strutturali.
Nel senso che riguardano la stessa Quinta Repubblica?
Sì. Si parla normalmente della Quinta Repubblica come se vivessimo ancora sotto la Costituzione voluta dal generale de Gaulle, ma anche dai politici della SFIO (il Partito Socialista dell’epoca, ndr). Questa Costituzione era inizialmente una Costituzione parlamentare, e dava luogo a ciò che all’epoca veniva chiamato “parlamentarismo razionalizzato”. Essa affermava chiaramente – e questo non è stato modificato nei testi – che il Primo ministro “dirige e gestisce gli affari della Nazione”. Il famoso “dominio riservato” del Presidente, di cui si è molto parlato, fu ridotto alla politica estera e alla politica di difesa. Ma i successori di de Gaulle hanno distorto la Costituzione in senso presidenzialista.
In che modo, se si può sintetizzarlo in questa sede?
Pompidou estese il dominio riservato all’economia, che fu amplificato da Giscard d’Estaing e poi da François Mitterrand. Nicolas Sarkozy, con la sua teoria dell’”iper-presidente”, iniziò a intromettersi in tutto, una deriva che fu seguita da Hollande e poi da Macron. La decisione di ridurre il mandato presidenziale a 5 anni, adottata ai tempi di Jacques Chirac, ha trasformato il Presidente nella guida della maggioranza parlamentare, cosa che prima non era. In breve, abbiamo testi che fanno riferimento a una logica parlamentare e una deriva nella pratica politica che di fatto impone un regime presidenziale, ma molto imperfetto. Alla crisi politica “politicienne” sopra descritta si aggiunge quindi una crisi istituzionale. La successiva nomina di Primi ministri senza una solida base parlamentare (Barnier, Bayrou, Lecornu) ne è un esempio. Infine, c’è un vero e proprio problema di legittimità.
In che cosa consiste?
Il governo francese è sempre più vincolato nelle sue iniziative dalle direttive europee e dalla loro trasposizione nel diritto francese. Questo è ovvio, è ben noto. Il risultato è una crisi di legittimità del potere politico. Tuttavia, senza legittimità, non può esserci legalità. Da qui un conflitto permanente su chi può decidere la “legalità” di un’azione: il Parlamento, il governo o i giudici? Questa crisi di legittimità ha le sue origini nel rifiuto del progetto di Costituzione europea da parte degli elettori nel 2005 e nelle successive manovre, in gran parte di Sarkozy, per imporne la realtà contro l’opinione formale degli elettori.
Dunque non si può ridurre l’attuale crisi politica in Francia a una crisi di maggioranza parlamentare.
Esatto. Ed è l’intreccio di queste tre crisi che rende la prima, la cosiddetta crisi “politica”, estremamente difficile da risolvere. Supponiamo che il Presidente sciolga nuovamente il Parlamento. È ormai chiaro che Macron prenderà questa decisione solo dopo aver esaurito tutti gli ultimi tentativi di formare un governo.
Macron ci sta ancora provando.
Infatti da ieri Macron sta tentando di formare un governo di centro-sinistra sulla base di un’alleanza tra i socialisti (PS) e ciò che resta della sua maggioranza. Ma un governo del genere sarebbe molto fragile e vulnerabile a un attacco combinato dell’estrema sinistra (LFI ed EELV) e della destra radicale (RN e LR): per non essere attaccati dai loro ex alleati della LFI e dell’EELV, i socialisti dovrebbero strappare al Presidente probabilmente più di quanto egli sia disposto a concedere.
Torniamo all’ipotesi di scioglimento.
Se si vota, le elezioni restituiranno un Parlamento poco diverso da quello attuale. Certo, il RN e il suo alleato avranno più deputati, il Blocco centrale si ridurrà ulteriormente e – forse – ci saranno cambiamenti all’interno del blocco di sinistra. Ma, fondamentalmente, nulla di tutto ciò avrà alcuna influenza sulle altre due cause della crisi. È possibile, tuttavia, che la scomparsa della facoltà del Presidente di sciogliere nuovamente il Parlamento per un anno allenti la pressione sull’Assemblea. Tuttavia, se si potesse raggiungere un accordo, necessariamente limitato, in questa nuova Assemblea, sarebbe estremamente fragile. Nella migliore delle ipotesi, potrebbe arrivare fino alle elezioni presidenziali del 2027, e anche questo non è del tutto certo.
Intanto, da lunedì scorso, si moltiplicano le richieste di dimissioni del presidente. Lei cosa pensa in proposito?
Arrivano anche dall’interno delle sue stesse fila, come nel caso della dichiarazione di Edouard Philippe. È probabile che Macron resisterà fino alla fine. Ma ormai quella delle dimissioni è un’ipotesi che non può più essere ignorata. Il fatto che se ne parli negli ambienti finanziari internazionali dimostra che ormai questa ipotesi viene presa sul serio. Non si può ignorare il fatto che se verrà costituito un governo di centro-sinistra, al di là della sua fragilità, probabilmente sarà rapidamente attaccato dai mercati finanziari.
Vengo al secondo punto. Macron non è parte della soluzione, ma del problema. Lo stesso presidente è ben consapevole di condurre una lotta di potere, con conseguenze significative per la stabilità del sistema democratico. Qual è il suo obiettivo? Chi vuole indebolire e fin dove può arrivare?

Che Macron sia parte del problema è ovvio. Istituzionalmente è così. Successore di Hollande e Sarkozy, ha adottato i tic e le pratiche dell’iper-presidente, stravolgendo così la Costituzione che, ricordiamolo, non è una Costituzione presidenziale ma parlamentare. È parte del problema anche a causa del suo esercizio solitario del potere, fatto di capricci, scatti d’ira, profonda ignoranza delle regole, esplicite e non, delle relazioni internazionali, e per il suo comportamento da adolescente immaturo. Lo “stile” di Macron, così come la sua pratica del potere, contribuiscono quindi a renderlo il centro dei problemi. Quanto all’obiettivo che si è prefissato, la cosa è più complicata, perché implica un elemento strettamente personale. Non dimentichiamo la realtà: non può ricandidarsi e il suo partito, il famoso “En Marche”, ribattezzato “Renaissance”, è in rovina, come abbiamo visto con i violenti attacchi di Attal. Quindi, cosa resta?
Lei cosa risponde?
È chiaro che Macron non vuole che nessuno tocchi quello che ritiene essere il suo principale “contributo” alla politica francese, la famosa “politica dell’offerta”, con agevolazioni fiscali per i più ricchi e riforma delle pensioni. Vale la pena notare che gli effetti di queste misure sono nulli. Non c’è reindustrializzazione e la disoccupazione, dopo essere leggermente diminuita, ora sta di nuovo aumentando. Il suo bilancio è quindi disastroso, ma lui mostra un’ostinazione infantile nel difenderlo contro ogni previsione. Tuttavia, c’è un secondo punto dolente. Nel 2017, come nel 2022, è stato eletto contro Marine Le Pen e il Rassemblement National. E non vuole che lei gli succeda. Il problema è che si è scontrato con tutti i suoi potenziali successori, e questi ultimi, che si tratti di Edouard Philippe o Gabriel Attal, sono ora molto critici nei suoi confronti.
L’ostilità di Macron per Le Pen è risaputa. Che cosa è successo?
Secondo molti giornalisti, Macron ha cercato di screditare il RN offrendogli il potere nel 2024, durante lo scioglimento. Probabilmente pensava che in due anni e mezzo di potere il RN si sarebbe screditato. Ma il meccanismo del “Fronte Repubblicano”, l’accordo reciproco di desistenza di tutti i partiti tranne il RN per eleggere uno dei loro candidati contro il RN, ha distrutto il suo piano, dando origine a un’Assemblea ingovernabile.
Oggi come si comporterebbero in caso di voto gli elettori francesi?
D’ora in poi, è probabile che gli elettori, terribilmente delusi dal comportamento di questi partiti, non seguiranno più la cosiddetta direttiva del “Fronte Repubblicano”. Ma sciogliere di nuovo il Parlamento, questa volta un anno e mezzo prima delle elezioni presidenziali del 2027, è decisamente troppo rischioso. Macron ricorrerà allo scioglimento solo se si troverà completamente alle strette. E qui abbiamo un terzo problema, psicologico, per Emmanuel Macron.
Psicologico in che senso?
Avendo costruito la sua carriera sull’immagine di “uomo del futuro”, non sopporta di essere visto come l’uomo del passato. Eppure, è così che viene percepito dalla stragrande maggioranza dei francesi. Tutto questo spiega in gran parte il suo comportamento attuale. In più, egli considera le sue “riforme economiche” essenziali per la Francia. Eppure, da ieri si parla di una possibile sospensione della riforma del sistema pensionistico, che era una delle riforme emblematiche dei suoi due mandati. Raramente nella Quinta Repubblica si è visto un presidente così screditato, se non addirittura odiato. Macron vede così crollare, punto dopo punto, tutta la sua politica. È evidente che una situazione del genere non può che influenzarlo profondamente e potrebbe provocare irrigidimenti politici imprevisti.
Ci sono evidenti pressioni per imporre misure di austerità alla Francia. Le proteste nelle strade francesi saranno sufficienti a evitare questa eventualità?
Negli ultimi tempi, le proteste sono riuscite a evitare una svolta verso l’austerità solo due volte: nel 1995, durante quello che fu chiamato il “Piano Juppé” (dal nome dell’allora Primo ministro, ndr) e nel 2020, con la crisi del Covid-19. A parte quest’ultimo esempio, va ricordato che le proteste del 1995 furono davvero enormi e il movimento godette di un ampio sostegno. L’attuale movimento sociale mi sembra incapace di raggiungere questo livello.
Lei ha spiegato in molti suoi scritti che il problema dei problemi, sia per l’economia che per la politica della Francia e non solo, è l’euro. Per quale motivo?
L’introduzione dell’euro ha portato a un apprezzamento dell’economia francese rispetto a quella tedesca compreso tra il 20% e il 40%, il che implica una notevole perdita di competitività. Le pubblicazioni annuali del “Rapporto sul Settore Esterno” del FMI per il periodo 2010-2019 dimostrano chiaramente questo effetto dinamico e il mantenimento di una disuguaglianza statica. Il tasso di cambio effettivo reale (REER) della Germania è sottovalutato del 10-15% rispetto al suo valore di equilibrio, mentre quello della Francia è sopravvalutato del 12-15%. Il divario è quindi in media di almeno il 25% a svantaggio della Francia. Possiamo anche osservare che la Francia non è l’unica in questa situazione. Spagna, Italia e Belgio si trovano in situazioni simili, come si può vedere in questa tabella del 2017.

Questo divario, ovviamente, avvantaggia enormemente la Germania. Inoltre, uno studio tedesco pubblicato nel febbraio 2019 dal Centre for European Policy Freiburg (CEP), fortemente europeista, ha calcolato i guadagni per i vincitori nella partita dell’euro, ma anche le perdite per gli sconfitti. Secondo i calcoli di questo studio, condotti da Alessandro Gasparotti e Matthias Kullas, ogni francese ha perso 3.110 euro all’anno, più di due mesi di salario minimo, in media tra il 1999 e il 2017.
Quali sono le conseguenze?
Sono evidenti: l’euro agisce da freno alla crescita francese e si dice che abbia causato al Paese una perdita di crescita del PIL compresa tra lo 0,5% e l’1,5% ogni anno. Ciò implica non solo un aumento della disoccupazione e una graduale deindustrializzazione, ma anche una perdita di entrate per lo Stato in termini di tasse e contributi previdenziali. Dal 2002, i governi francesi hanno cercato di compensare questo effetto attraverso aiuti alle imprese, che hanno aumentato la voce “spese” del bilancio, mentre la voce “entrate” è stata limitata dall’euro. Questo spiega perché, nonostante una delle aliquote di tassazione pubblica più elevate dell’OCSE, abbiamo un deficit di bilancio enorme, superiore al 5%.
Come si è cercato di correre ai ripari?
Per cercare di compensare gli effetti negativi dell’euro i governi francesi che si sono succeduti dal 2002 hanno scelto di aumentare la spesa pubblica, ma senza successo. Nel 2012 ebbi modo di incontrare due volte François Hollande, appena eletto Presidente della Repubblica, e gli spiegai l’evoluzione catastrofica dell’economia francese. Ma era troppo ossessionato dall’UE e dall’euro, e non riuscii a convincerlo. In quell’occasione incontrai persino Macron, allora consigliere economico di Hollande. L’unico politico francese che ha capito cosa aspettava il nostro Paese è stato Montebourg, il cui ministero aveva finanziato segretamente il lavoro di ricerca che portò alla pubblicazione dell’opuscolo Scenari per la dissoluzione dell’euro, pubblicato nel settembre 2013 dalla Fondazione Res Publica, presieduta da Jean-Pierre Chevènement.
La soluzione alla crisi francese passa per l’uscita dall’euro?
Sì, certamente, ma uscire dall’euro non sarà sufficiente. In occasione dell’uscita, dovremmo ripensare completamente il funzionamento del sistema fiscale e finanziario francese e dovremmo compiere uno sforzo particolare per sostenere l’industria. Tuttavia, alcune delle misure che dovremmo adottare contraddicono direttamente il quadro dell’Unione Europea.
Quindi?
Oggi dovremmo sia uscire dall’euro che uscire dall’UE. Inoltre, dobbiamo anche comprendere che un’uscita che non includa cambiamenti significativi di politica economica e istituzionali – in particolare per quanto riguarda il rapporto tra la Banca centrale e il governo – sarebbe inefficace. Uscire dall’UE e dall’euro rende possibili questi cambiamenti, ma dovranno essere attuati rapidamente.
I trattati europei hanno disattivato la sovranità politica ed economica dei Paesi europei, ma per cambiare i trattati sono necessarie decisioni sovrane. Come possiamo uscire da questa situazione?
L’unica soluzione, in Francia, sarebbe un referendum sulla questione dell’appartenenza della Francia all’UE o, più probabilmente, sulla supremazia delle leggi nazionali rispetto alle normative europee. In caso di esito affermativo, il governo avrebbe la legittimità e il quadro giuridico per ripristinare la sovranità politica ed economica della Francia.
Molti partiti arrivati al potere dopo essere stati all’opposizione – come in Italia FdI, guidato da Giorgia Meloni, attuale capo del governo – si sono allineati in Europa. Chi sarà responsabile della disruption necessaria per mettere in crisi l’Eurosistema? O essa dipenderà da una serie di eventi traumatici, innescati, ad esempio, dalla guerra in Ucraina, dai dazi USA o dalle conseguenze del riarmo europeo?
Il problema della “normalizzazione” non riguarda solo l’Italia. Fondamentalmente, si riduce a una scelta tra l’esercizio del potere, con tutti i vantaggi personali che ne derivano, e gli interessi del proprio Paese. Si potrebbe infatti pensare che la questione degli interessi nazionali tornerà in primo piano a causa di diversi eventi traumatici. Ma lo stesso vale per la divergenza degli interessi nazionali. Stiamo assistendo, sempre più chiaramente, alla formazione di diversi “blocchi” di Paesi all’interno dell’UE definiti o dalla storia – i Paesi scandinavi e gli Stati baltici, a cui probabilmente si aggiungerà la Polonia –, o da determinanti economiche e politiche, come il blocco Ungheria-Slovacchia, a cui potrebbe presto unirsi la Repubblica Ceca, ma anche i Paesi dell’Europa meridionale, e infine un blocco unito – sia pure in modo relativo – dall’ideologia europeista con Francia, Germania, Belgio e Paesi Bassi. Questa divergenza di interessi metterà a dura prova l’organizzazione dell’UE.
Qual è il suo scenario?
Possiamo presumere che l’UE avrà una vita molto agitata nei mesi e negli anni a venire. Tuttavia, al momento non è possibile prevedere quale sarà il problema che finirà per causarne il crollo. Dire che un’istituzione incontrerà gravi problemi non significa necessariamente che perirà. Esiste la dimensione dell’azione politica. Essa è fatta di scelte, decisioni e anche errori. Non è prevedibile nel modo in cui possiamo prevedere gli sviluppi economici. L’unica cosa che sembra evidente oggi è che la politica dell’UE metterà alcuni leader di fronte alla contraddizione tra la loro retorica e la realtà. Ma questo non ci dice come reagiranno a questa contraddizione.
Quale ruolo potrebbe giocare la Francia in questo processo di crisi?
È evidente che se in Francia venissero prese decisioni di rottura, sia nei confronti dell’euro che dell’UE, già solo per il peso del Paese – seconda economia dell’UE e dell’Eurozona, contributore netto al bilancio europeo, una delle due potenze nucleari dell’Europa occidentale –, tali scelte avrebbero effetti decisivi.
In che modo?
Sono convinto che se la Francia dovesse abbandonare l’euro, Italia e Spagna non potrebbero rimanervi. Analogamente, se la Francia dovesse abbandonare l’UE, a causa della sua posizione geograficamente centrale, Spagna e Portogallo sarebbero immediatamente obbligati ad aprire negoziati con la Francia, e credo che lo sarebbe anche l’Italia. Per lo stesso motivo, se la Francia abbandonasse l’UE, il bilancio dell’UE dovrebbe essere significativamente ridotto, poiché non vedo come l’Italia potrebbe sostituire la Francia come principale contributore al bilancio europeo. Qualsiasi decisione di abbandonare l’euro e l’UE intrapresa dalla Francia porrebbe scelte radicali e immediate per i Paesi del sud dell’UE, e in primis Italia e Spagna.
(Federico Ferraù)
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