I mercati sembrano credere che i dazi Usa all'Ue non resteranno al 3%. Ma questo non toglie problemi sul piano dell'economia reale
Il dazio del 30% su tutte le esportazioni europee annunciato sabato da Trump potrebbe in teoria comportare un crollo dei commerci tra le due sponde dell’Atlantico; per le imprese europee sarebbe difficile assorbire il dazio nei propri margini e anche i consumatori americani farebbero fatica a subire i rincari. Ai dazi si somma la svalutazione del dollaro degli ultimi mesi, che “aumenta” il dazio fino al 40%.
Nonostante questo i mercati non hanno reagito e i principali listini europei hanno chiuso invariati. La scommessa degli investitori è che i dazi siano destinati a essere ridimensionati e che alla fine si trovi un accordo su livelli più gestibili dagli esportatori europei e dai consumatori americani. I dazi diverranno effettivi solo il primo agosto e in queste tre settimane c’è tempo per nuovi accordi.
Nelle prossime settimane sarà interessante osservare lo sviluppo delle trattative e soprattutto le richieste che arriveranno dalla Casa Bianca; nessuno intanto può escludere che si aprano vuoti d’aria nei commerci tra le due sponde dell’Atlantico esattamente come accaduto tra Cina e Stati Uniti dopo il “Liberation Day”.
L’incertezza di queste settimane è negativa a prescindere, anche se alla fine si arrivasse a un accordo. Le imprese europee sono costrette a ripensare o rimandare i piani di sviluppo, gli importatori americani hanno incentivi, dove possibile, a diversificare le forniture preferendo Paesi che hanno accordi migliori. Il clima di incertezza pesa sull’economia.
La prossima mossa tocca ora all’Europa, che dovrà decidere come rispondere agli ultimi dazi, se adottare un approccio morbido oppure reagire con ritorsioni contro cui Trump, nella lettera di sabato, ha già minacciato maggiori dazi.
Questa fase produce in Europa tensioni a cui gli altri partner commerciali degli Stati Uniti non sono soggetti. Dentro l’Europa ci sono economie che esportano molto più di altre e non c’è uniformità tra i Paesi membri nelle categorie di beni esportati. Già oggi si assiste a una differenza tra l’approccio del mondo industriale italiano, che cerca un accordo, e invece una reazione molto più intransigente della Francia.
Un inasprimento delle tensioni commerciali si scaricherebbe in Europa in modo asimmetrico tra i Paesi membri. Qualcuno ne sarebbe impattato molto più di altri e questo implica tensioni orizzontali tra Paesi membri e verticali tra Paese membro e Commissione.
Se l’Europa adottasse un approccio intransigente il rischio è che alcuni Paesi possano andare in crisi molto più di altri; vorrebbe dire più deficit, che nessuno sa con quale flessibilità l’Europa potrebbe trattare, e tensioni sul debito che nessuno sa come la Bce potrebbe governare.
Il Regno Unito ha appena chiuso un accordo commerciale con dazi al 10% che molti imprenditori italiani hanno giudicato gestibili. Londra non si è dovuta mettere d’accordo con tre decine di partner europei e ha potuto firmare un accordo su misura. In un mondo di guerre commerciali e tensioni geopolitiche, stare dentro l’Europa è più scomodo di prima, perché in attesa che l’Ue faccia il “salto di qualità” i costi di un cattivo accordo per i singoli Paesi possono essere traumatici e nessuno assicura che gli altri membri decidano di farsene carico.
Più il rischio di una crisi economica diventa concreto, più diventa allettante per i Paesi membri la prospettiva di un accordo bilaterale a prescindere dall'”Europa”. Da mesi si assiste a gravi violazioni dei principi europei sul mercato unico, sugli aiuti di Stato e persino a prese di posizione unilaterali sul deficit. Non è chiaro perché un Paese colpito da una guerra commerciale con gli Stati Uniti, dentro lo schema di una risposta intransigente dell’Europa, debba assistere agli aiuti di Stato di questo o quel Paese membro con danni diretti al proprio sistema industriale.
L’impatto sulle economie intanto si produce per la sola incertezza a prescindere da un accordo che magari avverrà, dopo l’ennesimo rinvio, in autunno. Nello stesso tempo l’Europa potrebbe optare per un approccio intransigente e questo all’inizio potrebbe mascherare le tensioni interne dando l’impressione di una maggiore coesione.
Nel frattempo però i Paesi membri e le loro economie sarebbe sottoposti a tensioni asimmetriche che l’Europa non è attrezzata per contenere, tanto più dal basso di una fragilità energetica e politica che nessuno nega. Il costo di una rottura dell’Europa è enorme e nessuno se lo può augurare, ma sarebbe inevitabile cominciare a farci i conti, se il prezzo di rimanere dentro è una crisi economica di cui l’Ue o gli altri Paesi membri non possono o non vogliono farsi carico.
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