Dazi: svalutando l’euro e creando nuove filiere per le Pmi della componentistica italiana si aprono nuove possibilità negli USA, sopravanzando la Cina
Per molte aziende, evidentemente, sono un grosso problema, soprattutto perché sono applicati da un Paese che costituisce un mercato di riferimento a livello mondiale per diversi settori. Ma i dazi, spiega Gianclaudio Torlizzi, fondatore di T-Commodity, da un certo punto di vista possono rappresentare un’opportunità, soprattutto per le aziende della componentistica italiana.
Tutto dipende dalla capacità europea e nazionale di sfruttare un vantaggio che deriva dall’imposizione di tariffe più alte da parte degli USA a un concorrente agguerrito come la Cina. Pechino dovrà far fronte a un 40% di dazio medio, mentre noi siamo attestati al 15%.
Una circostanza che può essere sfruttata a vantaggio delle imprese nostrane, a patto che la BCE abbassi i tassi di interesse e svaluti l’euro nei confronti del dollaro, ma anche a condizione che il sistema Italia sappia favorire la nascita di nuove filiere o che sostenga la crescita di quelle PMI che costituiscono da sempre il nostro tessuto produttivo.
Perché i dazi, al di là dei problemi che pongono alle imprese, possono creare le condizioni per nuove opportunità per le aziende della componentistica?
È chiaro che per l’export italiano i dazi, in quello che per molti settori è un mercato di riferimento, costituiscono un danno. Intanto, il dazio reale a cui dovrà sottostare l’export italiano è tra l’11 e il 13%, perché già esisteva un dazio intorno all’1,5%. C’è però un’altra considerazione da fare: il dazio medio USA nei confronti della Cina si attesterà intorno al 40%, quindi in realtà esiste un differenziale a favore delle imprese italiane. Parlo della componentistica, dell’industria per la quale i maggiori competitor delle imprese italiane sul mercato americano sono, appunto, i cinesi.
Basta questo differenziale favorevole, intorno al 25%, per garantire nuove possibilità alle imprese?
In realtà, anche noi però dobbiamo fare la nostra parte. C’è un elemento che peggiora la situazione, che è il cambio, che fondamentalmente rappresenta una sorta di secondo dazio. C’è bisogno, quindi, di una gestione più dinamica da parte della BCE, che dovrebbe spingere per il taglio dei tassi e premere per un euro al ribasso nei confronti del dollaro. I cinesi, probabilmente, mitigheranno l’impatto dei dazi svalutando lo yuan. Poi, però, c’è un tema di politica industriale.
Da questo punto di vista, cosa va fatto?
Intanto, questo nuovo scenario è destinato a rimanere strutturale: sbaglia chi ritiene che, una volta uscito dalla scena Trump, si tornerà al vecchio paradigma. Lo Stato americano si abituerà a un afflusso di liquidità che prima non aveva. Secondo le stime della Casa Bianca, arriverà a 600 miliardi di dollari l’anno. E il peso dei dazi non graverà totalmente sulle spalle dei consumatori americani: chi lavora nell’industria sa che sarà equamente distribuito tra chi esporta e chi importa. Succede perché chi esporta avrà bisogno di salvaguardare le quote di mercato e, finché ce la farà, si caricherà sulle spalle una parte degli oneri.
Come bisogna procedere, allora, in termini di politica industriale?
Bisogna adoperarsi per creare nuove filiere di aziende italiane che possono proporsi sul mercato con progetti già chiavi in mano o, laddove non è possibile creare filiere ex novo, sviluppare la grandezza delle nostre PMI attraverso degli incentivi. Senza demonizzare, come fanno certi ambienti liberal, le PMI. Le piccole e medie imprese italiane funzionano alla grande, però è chiaro che in un contesto di crescente competizione riuscire a produrre con economie di scala aiuterà a efficientare ulteriormente il processo produttivo. Questo deve essere il cuore di una nuova politica industriale, che finora non è mai stata fatta. Significa creare le aggregazioni tra PMI.
Quale componentistica può essere favorita in questo contesto?
Quella che è al servizio delle grandi aziende americane. Il futuro dell’industria italiana può essere questo: dopo essere stata subfornitrice della Germania, proporsi come subfornitrice degli Stati Uniti. Mi riferisco alla componentistica industriale: impianti, macchinari, valvole.
I dazi al 15% ci avvantaggiano rispetto al 40% della Cina. Al contrario, in settori diversi dalla componentistica, subiremo noi la concorrenza di Paesi ai quali sono state imposte tariffe inferiori alle nostre?
Il 15% è un livello di dazio che sta nella parte bassa del range. Il 10% ce l’hanno gli inglesi, che però non hanno manifattura, non sono un competitor per le imprese italiane. I giapponesi sono anche loro al 15%.
Può succedere nell’agroalimentare, per esempio, dove si teme un contraccolpo per i vini.
I vini di medio livello rischiano, ovviamente, quelli di alto livello molto meno: hanno un brand talmente riconosciuto che i consumatori saranno disposti a pagare un 15% in più.
(Paolo Rossetti)
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
