Gli USA chiedono alla UE di allinearsi alla loro economia in funzione anti-Cina. È l'Europa ora a dover decidere cosa vuol essere
L’obiettivo immediato è ridurre i dazi USA, ma in realtà l’Europa, osserva Gianclaudio Torlizzi, fondatore di T-Commodity, è chiamata a rispondere a una domanda molto più importante. Gli americani vogliono una scelta di campo che escluda la Cina, una richiesta di fronte alla quale la UE resta titubante perché, negli anni, gli Stati Uniti si sono dimostrati sempre meno affidabili come partner.
Le alternative, però, sarebbero di consegnarsi a un abbraccio mortale con Pechino o sposare la tesi dell’autonomia strategica europea, molto difficile da concretizzare. Intanto, la spirale dei dazi ha innescato una corsa alle materie prime tra USA e Cina che l’Europa rischia di pagare cara.
Partiamo dalla decisione di Trump di imporre dazi del 30% dal 1° agosto sulle merci provenienti dalla UE. Cosa vogliono gli americani dall’Europa?
È una decisione che sicuramente ha una forte connotazione politica, oltre che economica. Trump probabilmente ha preso forza dalla performance dei mercati finanziari americani, che, nelle ultime settimane, hanno ottenuto nuovi record storici. Inoltre, gli indicatori economici hanno confermato che c’è un mercato del lavoro molto solido. Ha tratto forza da tutto questo e, nonostante gli attacchi del Financial Times abbiano ferito il suo ego, ha deciso di calcare la mano e perseguire quello che rimane un suo obiettivo strategico: allineare l’industria dei Paesi alleati agli interessi americani. Questo è il cuore di tutto.
C’è qualcuno che già lo segue su questa strada?
Al momento ha ottenuto l’adesione a questo piano da parte di Regno Unito e Vietnam. Altri Paesi, come Canada, Messico, Giappone e Unione Europea, fanno molta più resistenza, e allora Trump calca la mano e utilizza i dazi come strumento di coercizione. Uno strumento che, comunque, gli garantisce ritorni economici immediati, lo si è visto dal surplus di circa 27 miliardi maturato a giugno. Se i suoi calcoli fossero corretti, riuscirebbe a ottenere qualcosa come 200 miliardi l’anno. Una cifra enorme che gli permetterebbe di finanziare una parte del rimpatrio produttivo al quale punta.
Insomma, qual è il messaggio di fondo?
All’Europa, in particolare, ma anche a tutti gli altri alleati, chiede di decidere da che parte stare. Questo impone alla UE riflessioni di carattere strategico che non ha mai fatto, perché ha potuto beneficiare della sicurezza americana, del gas russo e della componentistica del mercato cinese. Certezze che ora si stanno sgretolando.
Da parte USA non c’è nessuna considerazione per le difficoltà che possono incontrare gli alleati?
Trump non si pone il problema perché, per gli Stati Uniti, si tratta di uno scenario di carattere esistenziale. La priorità per loro è impedire che la Cina ottenga la superiorità tecnologica militare nei prossimi decenni. Tutto quello che riguarda il benessere europeo, a Washington, fondamentalmente importa quasi zero, perché l’obiettivo è molto più alto. Anzi, gli americani si chiedono perché l’Europa non decida autonomamente di mettersi al loro servizio. Fanno fatica a capire questo atteggiamento di contrasto da parte della UE.
Perché l’Europa è titubante di fronte a questa scelta?
Tutto nasce da un sostanziale problema di sfiducia dell’Europa nei confronti degli Stati Uniti. Il tema è che la fiducia nei confronti degli USA sta vacillando. Ma questo non è un problema che nasce con Trump: riguarda il Vietnam, l’Afghanistan. I Paesi europei si chiedono se è corretto scommettere a lungo termine sugli Stati Uniti, perché sono diventati meno affidabili. Questa è la grande domanda.
Cosa vogliono gli americani, diventare una specie di mercato esclusivo per noi, lasciando fuori la Cina come interlocutore commerciale?
Vogliono che progressivamente si arrivi a una cesura, a una chiusura del mercato europeo alla Cina, per fare in modo che vengano beneficiate le imprese americane.
Ci sono dazi sull’acciaio, sull’alluminio, sul rame e potrebbero essercene anche su altre risorse. E in questo contesto USA e Cina si stanno accaparrando tutto il possibile. Noi dovremo affrontare uno choc per mancanza di materie prime?
È uno scenario quasi certo. Gli americani hanno capito che una delle loro maggiori vulnerabilità nei confronti della Cina riguarda le materie prime. I cinesi, da anni, hanno intrapreso un’azione di stoccaggio strategico delle commodities. Gli americani utilizzano i dazi sulle materie prime anche per alimentare un’azione di stoccaggio che li sta premiando: stanno facendo piazza pulita di alluminio e di rame che oggi sono nei magazzini europei e asiatici. Sfruttano il differenziale di prezzo del rame e dell’alluminio sul mercato americano rispetto al resto del mondo: i grandi trader sono incentivati a prendere il metallo stoccato in Europa e in Asia e a venderlo, a trasferirlo in America. Si sta verificando da circa un anno. La minaccia dei dazi comporta anche questo: se si pensa che verranno applicati sul rame (o altro), per paura di pagare un sovrapprezzo sull’import, si inizia subito ad accaparrarselo.
Questo vuol dire che tra poco non avremo più materie prime?
L’Europa rischia di rimanere a secco, tanto è vero che la UE ha finalmente ventilato la possibilità di applicare dazi sull’export di rottami di alluminio fuori dall’Unione Europea. Inizia a rendersi conto che deve proteggere le proprie materie prime. L’unica vera materia prima che l’Europa ha sono i rottami utilizzati per la produzione di metallo. In questi ultimi mesi si è assistito a un deflusso pesante di rottame dall’Europa verso gli Stati Uniti, adesso finalmente sembra che la UE voglia attuare misure di protezione.
Qualcuno dice che, per indurre Trump a ripensarci, bisognerebbe azionare il cosiddetto bazooka, limitando l’accesso dei gruppi americani ai mercati finanziari ed escludendoli dagli appalti pubblici. Può funzionare?
Qui ci sono sensibilità diverse: i francesi sono per la linea dura, mentre Italia, Germania e la stessa Commissione europea puntano sul dialogo. Non credo, però, che l’Europa possa uscire vincitrice da una guerra commerciale ed economica con gli Stati Uniti. C’è chi punta sulla possibilità di innescare un avvitamento dei mercati finanziari che induca Trump a più miti consigli. Ma è una strategia molto pericolosa, soprattutto perché si fa fatica a capire quali sono i punti di forza dell’Europa: la difesa la dobbiamo sviluppare, la BCE dipende dai canali di finanziamento della FED e, dal punto di vista commerciale, siamo in surplus nei confronti dell’America.
Cosa succederà all’Europa?
Credo che questa situazione, se permarrà così com’è, rischi di provocare pesanti smottamenti nell’Unione Europea, da cui potrebbe uscire una UE meno numerosa in termini di Paesi, ma più coesa, in grado poi di maturare una visione strategica. Mettere insieme all’unanimità 27 Paesi è un problema.
L’Europa cosa può fare allora di fronte ai dazi al 30%?
Deve capire dove vuole andare. Può allinearsi con gli USA, con la Cina o perseguire l’autonomia strategica. Escluderei il legame con Pechino perché sarebbe un abbraccio mortale, sancirebbe la morte della poca industria rimasta. Con Washington, almeno, la UE rimarrebbe un fornitore di componentistica: si aprirebbero delle opportunità, soprattutto per l’Italia, che ha delle eccellenze in questo campo. L’autonomia strategica, infine, è bella a parole, ma bisognerebbe cambiare completamente il modello europeo, favorendo una politica industriale che incentivi la creazione di una filiera europea. Insomma, a forza di soddisfare le richieste USA, i dazi potranno essere portati al 20%, ma non si risolverebbe il problema: c’è una domanda più grande cui dare risposta.
(Paolo Rossetti)
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