Era nell’aria e ieri Eurostat ha dato la conferma: la disoccupazione nell’area euro è ai massimi da dieci anni, avendo toccato in agosto il 9,6% con il numero di disoccupati aumentato di 165mila unità arrivando a 15,17 milioni di persone.
Siamo al ricasco letale della crisi sull’economia reale tanto che il commissario Ue agli Affari economici, Joaquin Almunia, ieri ha ricordato e sottolineato come «occorre elaborare delle riforme del mercato del lavoro che evitino la creazione di una disoccupazione strutturale nel lungo termine. Avremo bisogno di migliorare gli incentivi per evitare i prepensionamenti, i limiti all’età pensionabile dei nostri Stati membri e dobbiamo consentire a chi ha più di 55 anni di mantenere il proprio posto di lavoro e continuare ad essere attivo». Già, ne avremmo bisogno davvero ma nessuno sembra intenzionato a farlo.
Le ricette, nei fatti, sono sempre le stesse. Aiuti di Stato ai settori strategici come quello dell’automobile, sostegno alle banche che una volta messo a posto il Core Tier 1 ringraziano e ricominciano ad agire come hedge funds, ma soprattutto sempre maggiori restrizioni e regolamentazioni. Follia, in un momento come questo che potrebbe innescare una crisi sociale a livello europeo dagli sbocchi davvero poco auspicabili.
A metà giornata di contrattazioni, ieri, a trascinare in basso i listini europei ci pensavano i titoli legati alle commodities – il rally speculativo è finito, andato in pace e non speriate che fossero prezzi destinati a salire perché la ripresa era dietro l’angolo – e quelli bancari: gli analisti concordavano che le frecce rosse che accompagnavano le azioni di Hsbc, Commerzbank e Barclays – tra le altre – erano dovute proprio al dato fornito da Eurostat e dal timore che nonostante il Fondo Monetario Internazionale stimi meno svalutazioni nel futuro, saranno le insolvenze dirette sui prestiti a colpire sia il comparto bancario che quella bolla speculativa travestita da servizio che è quello assicurativo.
Ma non è così solo per l’Europa. Le richieste settimanali di sussidi di disoccupazione negli Usa sono salite infatti a 551mila unità (+17mila), mentre gli analisti si attendevano un calo di 4mila unità. È recessione globale e le politiche di stimolo non sono servite ad evitarla, bensì soltanto ad alimentare un rally borsistico falso e tendenzialmente speculativo: appena reso noto il dato sui disoccupati Usa, guarda caso il prezzo del petrolio ha superato di nuovo i 70 dollari al barile.
Forse, quando prima del G20 le borse regolamentate chiedevano ai governi di porre un freno all’attività over-the-counter delle dark pools non avevano poi torto. Purtroppo, faremo in tempo a valutare la veridicità di quella richiesta in tempi molto brevi.
Sempre dagli Usa arrivano brutte notizie anche dall’indice manifatturiero di Chicago, il Chicago Purchasing Managers Index, sceso in settembre a 46,1 dai 50 di agosto, una contrazione che ha sorpreso non poco gli analisti che infatti stimavano una crescita a 52. Il perché è semplice e spaventoso allo stesso tempo: CIT Group, la banca che sostiene finanziariamente reti di vendita e dettaglianti, potrebbe infatti nuovamente trovarsi costretta a ricorrere alle procedure fallimentari per le difficoltà che starebbe incontrando, secondo quanto rendeva noto il Wall Street Journal, nel convincere i possessori di sue obbligazioni a convertirle in azioni. Dio scampi l’America da un’ipotesi del genere.
Cominciano, intanto, i primi segnali di frattura di quello che fino ad oggi era ritenuto un sistema intoccabile, ovvero quello del debito estero. Il parlamento islandese ha infatti deciso che pagherà i suoi debiti ai creditori esteri solo nella misura del 6% della crescita del suo Prodotto interno lordo. E se non ci sarà crescita, cosa molto probabile vista l’attuale recessione, non pagherà proprio nulla. L’Islanda, a causa dei crack delle sue banche, deve infatti 2,6 miliardi di euro alla Gran Bretagna e 1,3 all’Olanda, le quali hanno garantito i depositanti delle fallite istituzioni bancarie Kaupthink e Landsbanki che in gran parte erano inglesi e olandesi.
Per pagare i debiti, il Paese dovrebbe prendere altro denaro a prestito, oppure vendere (magari ai creditori) i suoi attivi nazionali, come le quote-pesca. Invece, almeno stando alle decisioni sovrane del Parlamento, non farà nulla di tutto questo: pagherà quando potrà, non prima.
Come reagiranno Gran Bretagna e Olanda non è dato a sapersi ma il precedente potrebbe rivelarsi molto pericoloso soprattutto se preso ad esempio dai paesi baltici sull’orlo del default e legati mani e piedi ai prestiti dell’area euro dopo aver accettato il peg con la moneta comune e di fatto aver indicizzato tutti i mutui in quella valuta o in franchi svizzeri.
Probabilmente l’Islanda sarà richiamata a più miti consigli oppure il Fmi interverrà per evitare effetti domino e sgradevoli crisi diplomatiche, ma alla fine tutti questi dati, sia quelli macro che quelli di fatto politici, ci parlano la lingua di una crisi ancora profonda e che ora sfodererà le proprie unghie contro l’economia reale: sarà il caso che Joaquin Almunia faccia seguire alle parole i fatti, altrimenti sarà la tenuta stessa di Eurolandia a essere a rischio.