Finalmente una buona notizia dagli Usa. Calano ai minimi da nove mesi le domande di nuovi sussidi di disoccupazione: nell’ultima rilevazione settimanale conclusa il 3 ottobre scorso, il numero di richieste è sceso di 33mila unità a 521mila rispetto al precedente livello di 554mila. Il dato è decisamente migliore di quanto stimassero gli analisti che prevedevano una flessione a 540 mila unità: si tratta del numero più basso di domande dal 3 gennaio scorso, quando ammontarono a 488mila.
Il problema è che questi dati servono a ringalluzzire i futures e far partire bene l’indice Dow Jones, non a offrire segnali di sistema rispetto a una ripresa. Mentre infatti Goldman Sachs emette il suo ennesimo report, questa volta decisamente corposo, in cui lancia la sfida agli investitori promuovendo e magnificando le opportunità del settore M&A – fusioni e acquisizioni – dalla Fed di Atlanta arriva un inquietante avviso ai naviganti.
Anche in questo caso con un report ripreso solo da Wall Street Journal e Cnbc, un analista ha tentato una simulazione per stimare l’effetto del ritardo con il quale le banche statunitensi fanno emergere le proprie perdite. Beh, il risultato fa venire la pelle d’oca: nel comparto dei mutui commerciali, infatti, si anniderebbe una vera e propria bomba che non è ancora emersa per la natura stessa di buona parte di questi mutui, definiti “interest-only loans” proprio perché il debitore, per un periodo determinato, ripaga gli interessi e non la somma ricevuta.
Al di là del porre sotto la lente d’ingrandimento il grado di tecnicalità truffaldina con cui le banche hanno evitato di inserire nei bilanci le perdite relative ai titoli tossici che hanno come sottostante questa categoria di mutui, il documento della Fed di Atlanta ha stimato che le perdite delle banche sui mutui commerciali dovrebbero esplodere letteralmente l’anno prossimo: le dimensioni di questa parte del mercato del mortgage statunitense sono enormi e per le banche la perdita sarebbe valutabile, sempre secondo il report, in poco meno di 7mila miliardi di dollari.
Evviva, le banche sono sanissime e bisogna investire sul ciclico, come ci ricordava l’altro giorno Bank of America-Merrill Lynch. Siamo alla follia, nemmeno più tanto lucida: il timore di nuove regole e minore possibilità di speculazioni abnormi sta facendo impazzire come mosche in un barattolo i grandi fondi e i grandi investitori. Non a caso l’oro continua il suo rally – ormai si parla di quota 1.500 dollari l’oncia entro Natale – grazie proprio all’attivismo degli hedge funds oltre che per la debolezza del dollaro. Schizza alle stelle il bene rifugio per antonomasia e la gente dice di investire sul ciclico invece che sul difensivo: mah, ancora una volta tocca constatare che la crisi non ha insegnato nulla.
Da parte nostra, il fatto che ieri il governatore di Bankitalia, Mario Draghi, abbia invitato le banche a completare il riordino dei bilanci non è segnale che fa stare tranquilli, ma non ditelo all’Abi perché si offendono tremendamente. In compenso le banche centrali mantengono i tassi pressoché a zero e la Bank of England annuncia che proseguirà il suo programma di iniezione di capitali nel mercato stampando moneta: certo, la cosiddetta ripresa va sostenuta, ma in questo modo non si fa altro che creare una bolla di liquidità che vedrà il debito schizzare alle stelle, esattamente come sta accadendo negli Stati Uniti.
Basta ascoltare le parole pronunciate ieri da Jean-Claude Trichet per capire quanto si stia navigando a vista anche nei piani alti della Bce: «I tassi attuali sono adeguati. In settembre è stato confermato un indice negativo dell’inflazione, mentre nei prossimi mesi tornerà leggermente positivo. Tutto ciò ci dice che l’economia della zona euro sta gradualmente recuperando. Le informazioni più recenti confortano ulteriormente la valutazione del consiglio direttivo e l’economia dell’area dell’euro si sta stabilizzando e dovrebbe segnare una graduale ripresa. Permangono tuttavia notevoli incertezze». Insomma, tutto e il contrario di tutto.
Di fatto, l’unico paese che può parlare in effetti di ripresa è l’Australia, la cui banca centrale l’altro giorno ha aumentato i tassi di interesse e ha annunciato nuovi rialzi del costo del denaro come primo passo della cosiddetta exit strategy dalla crisi. A settembre il governo di Canberra ha rilevato la creazione di 40.600 nuovi posti di lavoro, laddove gli analisti prevedevano 10mila nuovi disoccupati: il tasso di disoccupazione è quindi sceso al 5,7% dal 5,8% di agosto. Immediata è giunta la risposta dei mercati: il dollaro australiano è salito a un nuovo massimo di 14 mesi sul dollaro Usa e la borsa di Melbourne ha chiuso ai massimi di un anno, in rialzo dell’1,6% a 4.768,6 punti.
Certo, laggiù non sanno cosa sia il debito e hanno una possibilità di intervento e operatività ben diversa da quella dell’Eurozona, ma ritengo che sia necessario cominciare a pensare a una politica di leva sui tassi: tutto questo denaro a costo zero sta cominciando a diventare un rischio grande, troppo grande a fronte della fragilità strutturale della maggior parte dei paesi.
Occorre essere onesti e dire le cose come stanno: finché le banche non faranno ordine e poi pulizia nei loro bilanci, quantificando davvero il totale degli assets tossici che gravano nei loro conti, non si potrà parlare di ripresa né scegliere differenti politiche monetarie da parte delle banche centrali, visto che le immobilizzazioni in titoli e in crediti a rischio sono in larga misura alla base del razionamento dell’offerta di credito a famiglie e imprese, la vera bolla “a venire” che sta minacciando una possibile ripresa. Occorre chiarezza. Subito. Altro che inviti a gettarsi sull’azionario e premiare il comparto bancario.