«Se dovesse emergere una crisi in un paese della zona euro, c’è una soluzione». È quanto ha sottolineato il commissario Ue agli Affari economici, Joaquin Almunia, durante un intervento qualche giorno fa a Bruxelles.
«Potete star sicuri che prima che arrivi il Fondo monetario internazionale ci sarebbe una soluzione», ha sottolineato il commissario senza tuttavia entrare nel dettaglio di eventuali piani di intervento: «La soluzione esiste, siamo equipaggiati politicamente, intellettualmente ed economicamente per affrontare la crisi. La definizione di queste cose non può però essere esposta pubblicamente».
Peccato, sarebbe stato interessante saperlo visto uno Stato dell’area euro è già in default tecnico – l’Irlanda – e un altro sta avvicinandosi a tappe forzate al punto di non ritorno, l’Austria. A dirlo sono i freddi numeri dei cds, l’assicurazione sul rischio di fallimento di un’entità terza, sul rischio di default dei vari Stati sul debito pubblico: quello irlandese è salito in una settimana da 350 punti base a 376, quello dell’Austria è addirittura schizzato a 240 punti base.
Non stupisce visto che le banche di Vienna hanno prestato all’insolvente Est europeo il 70% del Pil austriaco e ora rischiano di non vederselo rimborsato. Se va in default l’Austria, arrivederci all’Est e alla stessa tenuta dell’area euro: non servirà più sottoporre a referendum in Irlanda il Trattato di Lisbona, l’Europa sarebbe morta e sepolta. E anche Unicredit, a dispetto dell’ottimismo dispensato a piene mani dal proprio amministratore delegato, potrebbe subire perdite consistenti.
Almunia lo sa e infatti ora comincia a mettere le mani avanti e preparare la gente al peggio, nonostante la goffa precisazione del suo portavoce: «Al momento il rischio di default di un Paese dell’area euro è improbabile». Prima, ovvero pochi giorni fa, era «impossibile». Ma, quindi, lo sa solo da qualche giorno? Da qualche settimana? Da qualche mese? Oppure, come molti altri, come quasi tutti i ministri delle Finanze, i capi di governo, i banchieri centrali e quelli privati, da almeno quattro anni?
Se infatti l’America ha creato le condizioni perché la crisi finanziaria la travolgesse, l’Europa cosa ha fatto negli ultimi anni per prevenire quanto sta accadendo nel suo sistema bancario? Nulla nonostante nel corso del vertice informale tenutosi in Lussemburgo il 14 maggio del 2005 venne trovato un accordo a maggioranza su un unico punto: un memorandum d’intesa per la creazione di un piano di emergenza consistente nello scambio aperto e rapido di informazioni internazionali tra i membri su eventuali crisi in atto al fine di evitare la loro espansione al continente in una sorta di effetto domino, per fronteggiare un’ipotetica crisi finanziaria a livello europeo.
Il documento, facilmente reperibile sui siti istituzionali dell’Ue, si intitolava “Memorandum d’intesa sulla cooperazione tra supervisori bancari, banche centrali e ministri delle Finanze dell’Unione Europea su situazioni di crisi finanziaria” e si basava su otto punti, sostanzialmente una riedizione rafforzata del precedente memorandum varato nel 2003.
Nonostante si sottolineasse che questo atto non appariva vincolante per l’autonomia di intervento dei vari paesi in caso di crisi, lo scopo dell’operazione era chiaro. Ovvero, il sistema è ormai globale e nessuno di noi è un’isola. Questo nel maggio 2005. All’epoca la notizia non suscitò particolare scalpore anche se ambienti londinesi non presero particolarmente bene la excusatio non petita del presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, affannatosi a tranquillizzare i cronisti sul fatto che l’accordo non significasse «la presenza concreta di minacce reali in tal senso a medio termine».
Bluffava o lo pensava davvero? In compenso, però, emerse che quella riunione decise che l’aprile dell’anno successivo si fosse tenuta una simulazione di collasso bancario continentale sotto l’egida del Financial Services Committee a Francoforte. In sede Ecofin, insomma, si stava valutando l’ipotesi di una crisi finanziaria a livello europeo sul modello di quella che squassò l’Asia nel 1997-98 o di quella più limitata che nel 1992-94 toccò le regioni scandinave.
A rendere il tutto ancora più credibile – lasciando in bocca un sapore di incombenza che le autorità invece negavano, Trichet in testa – fu poi la dinamica scelta per il piano di simulazione della crisi: stando agli studi dell’epoca, infatti, sarebbe stato il collasso di una grande banca operante a livello continentale a far scatenare l’effetto domino generale. All’epoca in sede comunitaria si parlava, riferendosi all’accordo, di nulla più che di un’estensione dell’intesa già esistente tra banche centrali e regolatori (quello del 2003 citato in precedenza), sfuggì però ai più che questa “estensione” vedeva coinvolti anche i ministri delle Finanze dei 25.
Sempre in seno a questa operazione gestita dall’Ecofin fu bocciata a larga maggioranza la proposta di creare un super-comitato centrale – con sede a Bruxelles – che monitorasse tutti i possibili scenari di crisi interni all’eurozona: «I comitati non risolvono le crisi», fu il giudizio senza appello del capo del comitato per i servizi finanziari dell’Unione, l’olandese Kees Van Dijkhuizen. Il quale, interpellato dal Financial Times dopo il vertice del 14 maggio del 2005, disse: «Speriamo di occupare il nostro tempo con questioni che non ci vedranno mai diretti protagonisti, ma visto quanto accaduto in Asia e in altre parti del mondo non possiamo dire con certezza che questo non succederà mai da noi».
E come andò quella simulazione? Il 9 settembre a Helsinki si tenne una nuova riunione dell’Ecofin tesa proprio a valutare I risultati ottenuti: nessun giornale sembrò dare troppa importanza alle parole del presidente finlandese, Tarja Halonen, il quale disse in maniera molto diplomatica che il sistema Ue di vigilanza e intervento era assolutamente inadeguato. Il 12 settembre, tre giorni dopo, un solo giornale, European Report, sottolineava la pesantezza della situazione con un articolo dal titolo “L’Europa si scopre impreparata a gestire una crisi finanziaria”.
Da allora, cosa è accaduto? Alla riunione dell’Ecofin del 9 ottobre 2007, a scandalo Northern Rock già scoppiato, si discuteva di eccessive procedure sul deficit di Gran Bretagna e Repubblica Ceca mentre il 23 gennaio di quest’anno, a crisi ormai esplosa, in Slovenia si tornava a parlare di necessità di rafforzare la cooperazione sulla supervisione.
Parole. Solo parole. Come quelle, profeticamente scritte da Deutsche Bank in un outlook per gli azionisti istituzionali pubblicato più o meno nello stesso periodo, ovvero la primavera 2005: nel 2010 uno stato europeo abbandonerà l’euro dando vita a una crisi sistemica. Che forse, a qualcuno, sta facendo e continua a fare comodo a livello di equilibri politici, industriali, economici e finanziari. Riflettiamo. E leggiamo attraverso un’altra lente le dichiarazioni che arrivano da Bruxelles e Francoforte.