Come avrete notato, non ho ancora trattato l’argomento dello shutdown statunitense e del rischio di default per il mancato accordo tra Repubblicani e Democratici sul tetto di debito. La mia non è stata una scelta snobistica o un vezzo particolare ma semplicemente una presa d’atto del fatto che, esattamente come due anni fa, si tratta di un colossale bluff finalizzato a far passare manovre che altrimenti avrebbero scosso i mercati in maniera più diretta. Certo, in linea di principio il rischio di default dovrebbe terrorizzarci e terrorizzare soprattutto gli americani, visto che l’altro giorno il loro debito a breve termine era più volatile (e quindi rischioso) di quello italiano e spagnolo. Certo, Cina e Russia – principali detentori al mondo di debito Usa – hanno alzato un pochino il tono della voce, ma rispetto a vere minacce e a preoccupazione reale siamo lontani anni luce: i toni siriani non si sono mai sentiti, né letti in questi giorni. La cronaca delle ultime ore, poi, sembra darmi ragione.
Mercoledì Barack Obama ha infatti aperto una serie di consultazioni con i parlamentari del Congresso mirate a far uscire Washington dalla paralisi politica che minaccia di portare la prima economia mondiale tecnicamente in default da venerdì prossimo, 17 ottobre. Dopo aver ascoltato i rappresentanti dei Democratici, la Casa Bianca ha incontrato ieri gli omologhi Repubblicani, che detengono la maggioranza al Congresso: salvo sorprese della ultima ora, si profila la più classica delle soluzioni di compromesso, un accordo ponte della durata probabile di un anno, che permetta il temporaneo innalzamento del plafond sul debito, dando nel frattempo modo alla trattativa politica di fare progressi.
Detto fatto, gonzi tutti in fila in Borsa. Anche perché quasi in contemporanea con l’annuncio di Obama, veniva ufficializzato il nome di Janet Yellen alla presidenza della Federal Reserve, una colomba che sembra garanzia di un tapering molto lento e molto in là nel tempo. Certo, il fatto che nel Consiglio direttivo della Fed entri un falco come Fisher potrebbe far propendere per l’ipotesi di una guerra interna, tanto più che nei verbali dell’ultima riunione del Fomc, diffusi mercoledì, è emerso che la decisione di non far partire il programma di tapering è stata adottata a maggioranza ma con un margine limitato: molti membri influenti avrebbero infatti voluto cominciare a ritirare le manovre di stimolo già quest’anno e giungere alla conclusione definitiva a metà del 2014. D’altro canto, i consiglieri contrari ad avviare l’exit strategy si sono detti preoccupati per i deludenti numeri sull’occupazione di luglio e agosto: strano, quando lo dicevo io che i numeri della forza lavoro erano taroccati mi davano del complottista a oltranza.
Il problema, però, non è affatto risolto. Anzi. Partiamo da un dato, ovvero che gli Usa non sono affatto di fronte a una crisi di deficit. L’ufficio Budget del Congresso ha detto chiaro e tondo che il deficit statunitense sarà del 4% del Pil quest’anno, del 3,4% nel 2014 e del 2,1% nel 2015. Certo, non c’è da fare i salti di gioia, ma nemmeno siamo di fronte a una minaccia di morte imminente. La spesa pubblica federale è scesa dal 25% al 23% negli ultimi due anni, grazie a un refolo di ripresa (minimo), ma soprattutto al peggior squeeze fiscale dalla guerra di Corea a oggi. E siccome questa prospettiva di cinghia tirata proseguirà anche l’anno prossimo per un importo pari allo 0,75% del Pil, siamo ai livelli medi degli ultimi quaranta anni e sotto i livelli sanciti dall’Ocse.
Grazie all’attivismo della Fed, il Pil nominale sta crescendo molto più velocemente dello stock di debito, il cosiddetto “effetto denominatore”. La ratio del debito totale detenuto dal pubblico è scesa di un 1% del Pil dall’inizio dell’anno e il trend pare innescato, visto che si dovrebbe passare dal 76,2% al 74,6% il prossimo anno, per poi calare ancora al 72,2% nel 2015. Tanto è vero che, al netto della delirante provocazione di John Reid di Deutsche Bank – il quale ha invocato un’ondata di vendite sul debito Usa per convincere i politici statunitensi a trovare un accordo -, mercoledì il Tesoro degli Stati Uniti ha collocato titoli a 10 anni per 21 miliardi di dollari a un tasso del 2,66%, in calo rispetto al 2,95% dell’asta di settembre. Quindi, attenzione a non ingigantire il problema del debt ceiling e non tramutare la data del 17 ottobre in una nuova fine del mondo in stile Maya.
Il problema vero, per gli Usa ma anche per il resto del mondo, è e resta il “tapering”, ovvero come opererà la Fed. Dopo un periodo di sonno, si sono svegliati anche al Fmi, visto che l’altro giorno hanno sentito il bisogno di avvertire il mondo che un’operazione di restrizione monetaria negli Usa potrebbe mettere in evidenza eccessi finanziari e debolezze strutturali che potrebbero costare sui mercati obbligazionari qualcosa come 2,3 triliardi di dollari, pronti a sparire dai portafogli bond globali. Per il Fondo, l’outflows di capitale dai mercati emergenti di questa estate dimostra come ci siano ancora elementi di enorme debolezza sui mercati finanziari, quindi il ritiro troppo netto di misure straordinarie potrebbe inviare stress e scossoni di difficile gestione. Quindi, oltre alle perdite, anche spread alle stelle, soprattutto sulle scadenze lunghe. Meno male che ce lo ha detto madame Lagarde, ora che lo sappiamo siamo più tranquilli. Ironia a parte, il problema c’è ed è grave e dimostra come il “tapering” sarà davvero l’unico argomento economico degno di interesse nei prossimi mesi.
Il perché è presto detto: l’ammontare di prestiti a leva emessi dalle grandi compagnie Usa ha toccato il massimo di tutti i tempi nel 2013, un qualcosa che ci dimostra come la lezione di Lehman Brothers non sia servita proprio a nulla. Il volume di prestiti istituzionali a leva è oggi a quota 392,5 miliardi di dollari, quasi il doppio dello stesso periodo nel 2012 e il record assoluto a dieci mesi da quando si tracciano questi dati, stando a Dealogic. E a confermarlo è anche l’attività di fusioni e acquisizioni e leverage buy-out negli Stati Uniti, mentre le aziende europee rimangono più caute e conservative: il timore di alcuni analisti, però, è che se si registreranno segnali di crescita all’inizio del 2014, anche l’Ue potrebbe conoscere una graduale crescita del releveraging. I prestiti a leva, d’altronde, portano ontologicamente con loro il rischio di default, ma per le grandi aziende risultano convenienti in un ambiente di tassi d’interesse molto bassi: basti pensare a Verizon, che ha racimolato sul mercato oltre 60 miliardi di dollari per finanziare il suo buyout di Verizon Wireless nella joint-venture con Vodafone.
E chi ha garantito questo caravanserraglio? Ma la Fed, ovviamente, con la sua politica di tassi bassi che ha permesso il mantenimento ai minimi del costo del leverage e attraverso il programma di acquisto di assets, ovvero il QE. In settembre le banche si sono scapicollate nel chiudere alcuni accordi, proprio perché spaventate dal possibile arrivo del “tapering”, ma ora si naviga a vista. Certo, la Yellen pare garanzia di politiche di stimolo ancora per mesi, ma certezze non ce ne sono sulla tempistica reale: per quanto il costo del debito resterà ancora così basso? Nessuno davvero lo sa, l’unica cosa certa è che quando arriverà lo stop, potrebbero esserci seri rischi in vista. E questa volta, però, nessuno potrà dire di non essere stato consapevole dei rischi che stava prendendosi, mettendo a repentaglio non solo se stesso, ma l’intero sistema finanziario globale.