Se pensate che il destino del mondo sia unicamente nelle mani della Fed, ricredetevi come ho fatto io: la Cina sta saltando come una pentola a pressione e quanto accaduto all’inizio di questa settimana ne è la riprova. Nelle intenzioni delle autorità cinesi doveva essere un qualcosa destinato a ripristinare fiducia, invece ha innescato solo nuovi timori. Alla base del crollo dell’indice di Shanghai lunedì scorso, un rotondo -5,3% che rappresenta il peggior calo dal 2009, potrebbe esserci stata infatti l’ammissione da parte del governo, attraverso l’agenzia di stampa Xinhua, di una cattiva allocazione della liquidità fornita dalla Banca centrale in questi anni. Insomma, per allontanare gli spettri di un credit crunch dopo le tensioni degli ultimi giorni, si è direttamente scoperchiato il vaso di Pandora.
In un mondo alluvionato da 12 trilioni di dollari di liquidità extra negli ultimi cinque anni e con la massa monetaria M2 cinese che si è espansa del 15,8% rispetto ai primi cinque mesi dello scorso anno, dove diavolo sono finiti i soldi? Per il governo cinese si tratta unicamente di “misallocation of funds”, ovvero «i soldi ci sono ma non hanno raggiunto i posti giusti». E poco è servita, martedì mattina, la dichiarazione del capo della Banca del popolo, riguardo l’immissione di liquidità nel sistema in caso di necessità. Il Re, ormai, era nudo. Con tutto il suo reame di trucchetti e schema Ponzi.
Da tempo, infatti, le grandi aziende di Stato cinesi hanno di fatto smesso di operare nel loro settore e si sono lanciate nel business del prestito, creando una bolla di rischio sul debito spaventosa. Le major che operano in settori alle prese con l’extra-capacità hanno facilissimo accesso al credito, solo che non investono quel denaro in produttività o ricerca, bensì nel prestito a piccole e medie aziende, oltretutto con tassi di interesse di molte volte superiori a quelli ufficiali. Insomma, un mercato del finanziamento parallelo e informale con il beneplacito delle autorità. Anche per questo, lo Shibor si è letteralmente impennato, dovendo rapportarsi a uno shadow banking system da 3,7 trilioni di dollari (il 44% del Pil, ma Fitch calcola che, valutando tutte le possibili voci legate all’erogazione, siamo ormai al 200%) e con nuove pratiche come queste, i cosiddetti entrusted loans, gestiti dalle banche per conto delle aziende dietro lucrose commissioni. Un mercato più che raddoppiato nei primi quattro mesi di quest’anno, contando ormai per circa 1,6 trilioni di yuan (260 miliardi di dollari) dai 636 miliardi di un anno fa.
La ratio è semplice: in un contesto di extra-capacità, se si produce di più, si perde di più. Quindi, invece di investire per espandere l’output, si prestano soldi ad altre aziende. Dalla chimica all’industria dell’acciaio, questo business è ormai divenuto pratica anche per le aziende private: i tassi sono del 6-7% mediamente, ma in alcuni casi si arriva anche al 20-25%. C’è poi un altro timore, ovvero che il denaro mal allocato stia gonfiando a dismisura la bolla speculativa immobiliare, visto che di tutti gli entrusted loans emessi nel 2012 nella città di Delian oltre il 30% è finito nel settore real estate al tasso medio del 12%, mentre a Chongqing si arriva al 50% di tutti i prestiti. E ad alimentare timori sempre maggiori, anche il fatto che martedì Bank of China ha comunicato ai clienti la sospensione del servizio transfer dei futures sull’argento, dell’online banking e dei servizi di sportello, sottolineando che i tempi per la ripresa dei servizi non sono conosciuti e che i clienti verranno avvertiti con un messaggio di notifica.
Il tutto a sole 24 ore da guasti tecnici nelle filiali di Icbc nella zona di Shanghai, con l’online banking bloccato per un’ora, bancomat e Pos non funzionanti e sempre più rumors di una possibile mancanza di liquidità dell’istituto. E per quanto possa sembrare una ritorsione per il caso Snowden, martedì Moody’s ha tagliato a “negativo” l’outlook del sistema bancario di Hong Kong per l’eccessiva esposizione alla Cina, il persistere di tassi di interesse reali negativi e il rischio di bolla sul mercato immobiliare. Certo, le banche cinesi sono di proprietà dello Stato e con 3 triliardi di dollari di riserve si potrà ricapitalizzare, ma l’effetto sistemico resta tutto da valutare, visto che la crisi di liquidità sta deteriorandosi a velocità drammatica. Dopo i guasti tecnici, la cui veridicità è ancora tutta da valutare, ieri Caixin ha gettato la bomba a mano nello stagno: un rilevante numero di banche cinesi, molto semplicemente, ha temporaneamente ma del tutto smesso di erogare credito sia ai privati che alle imprese a causa della mancanza di liquidità. E guarda caso, nella lista degli istituti che hanno compiuto questo drastico passo, ci sono proprio parecchie filiali dei due protagonisti dei “guasti”: i giganti Bank of China e Industrial and Commercial Bank of China (Icbc).
E non è roba da poco, perché Bank of China riprenderà l’erogazione del credito, da suo comunicato, solo il 15 luglio prossimo. Insomma, quando si metteva nel mirino l’eccesso di credito cinese rispetto alla ratio depositi/prestiti della banche, non si lanciavano allarmi eccessivi. Icbc, invece, avrebbe semplicemente esaurito la quota mensile di prestiti prima della fine del mese, qualcosa di abbastanza inusuale e comunque un unicum finora: il problema, fanno notare analisti indipendenti a Hong Kong, è che la sede centrale dell’istituto ha tagliato le quote mensili di liquidità destinata ai prestiti per utilizzare il denaro in altre operazioni. Molto probabilmente, speculative sull’immobiliare. Anche in questo caso, lo stop è almeno fino alla prossima settimana, ma anche per l’inizio di luglio si parla di «operatività solo per alcune linee di credito».
Ma oltre allo strozzinaggio delle imprese e alla speculazione immobiliare, le banche cinesi sembrano aver imparato alla perfezione i trucchi del peggior e deteriore libero mercato, quello delle truffe travestite da investimenti. È infatti sempre più in espansione il mercato dei “prodotti per la gestione della ricchezza” (Wealth Management Products), ovvero programmi di risparmio gestito che in realtà sono vere e proprie frodi, come ci dimostra questa ricostruzione grafica.
Il primo passo è rappresentato dalle banche che prestano denaro ai governi locali per progetti infrastrutturali, subito dopo la Banca centrale entra nel gioco e dice alla banca di levare quei prestiti rischiosi dal bilancio. Terzo step, la banca vende quel prestito a un trust che lo re-impacchetta e una volta fatta questa operazione la banca vende il prestito re-impacchettato alla clientela retail come strumento di risparmio gestito. Il piccolo investitore ci casca e compra il prodotto, di modo che il sesto e ultimo step vede la banca re-incassare il denaro attraverso la vendita e con questo ripianare il bilancio.
Il problema – e qui potrebbe essere una delle cause della mancanza improvvisa e drastica di liquidità – è che questo circolo può essere interrotto bruscamente da perdite, rischi e illiquidità, diminuendo la creazione di credito o peggio spingendo la domanda verso il sistema ombra di finanziamento. Insomma, la clientela retail non investe perché più attenta ai pericoli, le compagnie di trust sono sempre più a corto di liquidità e quindi contrarie e qualsiasi assunzione di rischio anche sul breve termine, rompendo il sistema e soprattutto facendo saltare il sesto step, quello fondamentale dell’incasso per la banca.
Nessuno si stupirà, dopo questa panoramica, del fatto che il credit default swap cinese sia salito al livello più alto dalla crisi Lehman negli ultimi tre giorni, un aumento del 55% a quota 140 punti base, il più alto spread risk degli ultimi diciotto mesi. E qualcuno comincia a pagarne il conto, nella fattispecie la banche australiane, esposte alle pressioni cinesi e il cui rischio di credito è cresciuto del 50% nell’ultimo mese. Ormai è quasi una pandemia.