Avrei potuto darvi questa notizia già ieri nell’articolo in cui enunciavo quattro scenari di rischio già presenti a livello mondiale, ma, nel limite del possibile, tendo a non proporvi notizie che potrete leggere sui grandi giornali o sentire al tg mentre cenate. Ora però la questione è diversa. Se infatti nel primo pomeriggio di mercoledì era già noto che il Pil statunitense fosse letteralmente crollato del 2,9% nel primo trimestre e che gli ordini di beni durevoli fossero scesi dell’1% a maggio a fronte di un consenso a -0,3%, ciò che non avrei potuto raccontarvi era la reazione di Wall Street a queste notizie da mani nei capelli. Ora posso: mercoledì sera, in chiusura di contrattazioni, l’indice Dow Jones è avanzato dello 0,29%, l’S&P 500 circa dello 0,5%, raggiungendo quasi un nuovo massimo assoluto e il Nasdaq dello 0,68%. Insomma, se l’economia reale va male, la finanza festeggia. Pensate che rally avrebbe vissuto Wall Street se il Pil si fosse contratto del 5%, roba da mandare i prezzi delle equities sulla Luna!
Ironia a parte, la Borsa Usa ha chiuso in positivo una giornata che ha visto il peggior risultato di crescita trimestrale in un periodo di non recessione ufficiale da 60 anni a questa parte! C’è una spiegazione, ovviamente, anzi due. Primo, se l’economia reale va male, si allontana la prospettiva di un “taper” a zero in tempi brevi. Secondo, gli investitori si sono sentiti rassicurati dal pessimo dato del Pil, perché questo dovrebbe ridurre le probabilità di un rialzo dei tassi in tempi più stretti del previsto. Insomma, avanti con la bolla creata dalle banche centrali ancora per un po’. Il problema è che qualcuno, come vi dicevo ieri, comincia a mettersi in fila per l’uscita di sicurezza, conscio che così il sistema non può andare avanti ancora per molto: quindi, dove molti investitori vedono prati verdi e placidi laghi alpini, qualcun’altro vede presagi di sventura e si premunisce di conseguenza.
Ieri abbiamo parlato dell’impennata al 37% del Credit Suisse Fear Barometer, ma nel frattempo un altro importante indicatore rimanda segnali negativi: se infatti, come già vi dicevo, il Volatility Index o Vix appare ormai una cartina di tornasole poco credibile per il basso volume di trading, c’è un altro indice che ci rimanda un’impennata della paura. Si tratta del cosiddetto Skew, meglio conosciuto come “Black Swan Index”, l’indice del Cigno nero, metafora utilizzata per descrivere un rischio sui mercati molto poco probabile ma che se si concretizza porta con sé la tempesta perfetta.
Come vi ho già detto, il Vix è suoi minimi storici, giù del 20% da inizio anno, mentre la Skew è salito solo in giugno di oltre il 12%. Presi insieme, questi dati sottolineano una palese dicotomia presente tra gli investitori: da un lato abbiamo investitori che comprano opzioni plain vanilla sul Vix anticipando un altro mini-rally, dall’altro abbiamo professionisti che si coprono ma non da un’ordinaria correzione del mercato, magari dovuta a un dato economico negativo o a un evento geopolitico ma per qualcosa che potrebbe palesarsi dal nulla e mettere il mercato letteralmente in ginocchio, quello che gli operatori chiamano “major loop”.
Ne è convinta Catherine Shalen, il direttore dell’ufficio studi e ricerche della Cboe: «Ciò che sta accadendo è che, nonostante il fatto che tutti dicano che il Vix è basso e il mercato in modalità compiacente, gli investitori nella loro interezza non sono tutti convinti di questo sentiment. Questa dicotomia ci dice che alcuni investitori che operano sulle opzioni credono che la probabilità per una correzione molto secca, una deviazione three-standard stia crescendo». I due misuratori sono differenti: il Vix misura opzioni di breve o prossimo termine il cui target price non è ancora stato raggiunto – ovvero sono, come di dice in gergo, “out of the money” – e la sua media di lungo termine è 20, mentre martedì era a 11. Lo Skew, invece, usa una formula di opzioni molto più vasta del Vix: una lettura a livello 100 di questo indice indica un piccolo rischio di cosiddetto “fat tail”, ovvero eventi molto inusuali. Ieri era a livello 139, dopo aver raggiunto 143 venerdì scorso, il secondo livello più alto di sempre.
Da inizio anno lo Skew ha conosciuto parecchie variazioni, mostrando prima segnali positivi, poi un peggioramento: lo scorso 17 marzo l’ultimo picco in salita, poi una misurazione abbastanza benigna fino a giugno, quando ha ricominciato a salire. Il grosso balzo all’insù lo abbiamo registrato giovedì scorso, il giorno successivo al meeting della Federal Reserve, quando la numero uno Janet Yellen ha portato un po’ di malumore tra i partecipanti al mercato, ignorando di fatto la questione dell’inflazione, un qualcosa che molti operatori di lungo corso cominciano a pensare che possa tramutarsi nei nuovi subprime. Se infatti sia il mercato azionario che quello obbligazionario hanno reagito abbastanza piatti, quello delle opzioni ha conosciuto un po’ di tremolio e agitazione.
E questo cosa comporta? Che nonostante l’indice S&P 500 continui a salire e sfondare nuovi massimi, un settore del mercato dubita delle parole di Janet Yellen rispetto all’assenza di segnali in inflazione nel Paese, trovando questa assunzione un po’ disturbante. Questo non significa certo che prevedono un “Cigno nero” con alta probabilità, ma cominciano a pensarci, a mettere in conto l’ipotesi e questo cambio di impostazione si traduce immediatamente nell’aumento di domanda per opzioni put “out of the money”, un dato che contrasta con la scarsa domanda, invece, di protezione day-by-day dai rischi di correzione al ribasso, creando uno scenario interessante sui mercati ma anche preoccupante.
Ovviamente, siamo di fronte al classico caso del cane che si morde la coda: nessuno crede più alla correzione dei corsi del 10% perché questa teoria si è rivelata sbagliata lungo tutti gli ultimi mesi, ma la domanda eccessiva di opzioni put ci dice da un lato che lo Skew potrebbe salire proprio per un timore che magari sarà infondato e autoalimentante – quindi il dato non deve preoccuparci – ma dall’altro che se chi sta correndo a coprirsi con opzioni put dovesse avere ragione, la correzione potrebbe essere ben altro che del 10%.
E attenzione, perché nel silenzio dei media alcune cose si stanno muovendo e in fretta a livello geofinanziario. Per giorni e giorni, a seguito dell’annuncio del mega-contratto di fornitura energetica tra Russia e Cina, è seguita l’assenza di particolari e dettagli rispetto ai termini di pagamento contenuti nello stesso, lasciando intendere che il benchmark di riferimento e la valuta utilizzata sarebbe stato il dollaro, moneta in cui viene trattata la commodity a livello di scambi globali. Bene, nella mattinata di ieri qualcosa è cambiato e non di poco: il responsabile finanziario di Gazprom, Andrey Kruglov, ha infatti dichiarato che la sua azienda «è pronta a denominare i contratti con la Cina in yuan o rubli».
Attendiamoci a breve una reazione americana a questa mossa. E avverrà sui mercati, non nelle cancellerie.