La fine della tregua in Ucraina rappresenta qualcosa di molto più serio di quanto le mere implicazioni belliche possano far intendere al grande pubblico. Primo, allontana – fino quasi a farle sparire – le speranze che la crisi di Bonbass possa giungere in fretta a una soluzione diplomatica e incruenta. Secondo, avvicina lo spettro di nuove sanzioni occidentali contro la Russia che non potrebbero far altro che innescare la risposta molto dura di Vladimir Putin, viste le nuove fughe di capitali dalla Russia già palesatesi nel momento stesso in cui il leader ucraino, Petro Poroshenko, ha dichiarato che l’esercito passerà all’attacco «per liberare la nostra terra».
Una mossa che ha colto i mercati di sorpresa, con la guardia abbassata e che ha immediatamente portato il Fmi a sottolineare i rischi di un conflitto per l’economia russa, in primis con il prosciugamento dei fondi esteri: «Le tensioni geopolitiche hanno portato l’economia russa a un punto di stasi. Le azioni della Russia in Crimea hanno accentuato l’incertezza implicita nel fare business in Russia e ha portato a un congelamento degli investimenti. La fuga di capitali potrebbe raggiungere quest’anno i 100 miliardi di dollari. Tutto questo, inoltre, sta accadendo in un momento cruciale nel corso del quale il vecchio modello economico basato sull’energia si sta esaurendo».
Oltretutto, la Russia non si è mai ripresa appieno della crisi del 2008-2009 ed era già in una situazione recessiva prima che scoppiasse il conflitto ucraino: il Fmi si attende che il tasso di crescita scenda allo 0,2% quest’anno, con rischi di repentine inversioni al ribasso ulteriore. La stessa numero uno della Banca centrale russa, Elvira Nabiullina, ha dichiarato che la fuga di capitali sta ponendo seri problemi alla politica dei tassi di cambio: «La stabilità del rublo è un obiettivo impossibile da raggiungere se non riusciamo a rallentare gli outflows di capitali». In questo contesto, l’atteggiamento dell’Ue appare miope e aprioristicamente schierato sui desiderata Usa, sintomo di un’assenza totale di politica estera comune e di visione di quello che è lo scenario eurasiatico e la sua importanza per il futuro dell’Europa: gli ambasciatori l’altro giorno hanno chiaramente indicato il Cremlino come responsabile per la rottura del cessate il fuoco e hanno convenuto sulla necessità di intensificare la preparazione per nuove sanzioni, nei fatti caricando la pistola contro Mosca.
Tanto per dare una dimostrazione della miopia della politica Ue, basta citare la posizione del ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schauble, il quale prima ha dichiarato che «ulteriori misure sanzionatorie danneggeranno l’Europa», salvo poi schierarsi pilatescamente con il Dipartimento di Stato Usa sottolineando come «le violazioni del diritto internazionale non possono essere sopportate». Soprattutto dove fa comodo a Washington e ai suoi interessi, altrove possono essere tranquillamente ignorate. Addirittura, un report strategico preparato dagli analisti e consiglieri di Angela Merkel, suggerisce un cambio completo di politica verso Mosca, definendo «impossibile» lavorare fino a quando Vladimir Putin sarà al Cremlino. Insomma, siamo alla vigilia del cosiddetto “Stage 2” del suicidio europeo verso la Russia, ovvero sanzioni contro aziende mirate piuttosto che contro interi settori come quello energetico o finanziario.
Stando al giudizio di Tim Ash di Standard Bank, «sarà difficile per gli Usa e l’Ue evitare un’azione, visto che Donbass non può essere gestita come la Cipro Nord sotto controllo turco, essendo di fatto il cuore industriale dell’Ucraina». E la sola minaccia di nuove sanzioni, di fatto, ha già messo a rischio l’esplorazione russa per gas e petrolio nell’Artico, compreso lo shale gas, proprio a causa delle dipendenza di Mosca da capitale e tecnologia straniera. Inoltre, stando a dati forniti dal Fmi, il debito estero della Russia è passato da 467 miliardi di dollari a 746 miliardi di dollari in cinque anni, raggiungendo il 30% del Pil, trainato soprattutto dal debito di aziende come Rosneft, Gazprom e Russia Railways, tutte alle prese con grosse redemptions su prestiti – obbligazionari e non – entro i prossimi due anni: il solo gigante dell’alluminio Rusal deve ristrutturare qualcosa come 3,6 miliardi di dollari di debito.
Le varie aziende devono rifinanziare debito estero per circa 10 miliardi di dollari al mese, il tutto in un contesto il cui mercato obbligazionario russo vede crescere una sorta di deriva giapponese, ovvero appare del tutto fermo a causa delle tensioni geopolitiche: per il Fmi, «anche se pare che la maggior parte delle corporations abbiano cuscinetti di capitale sufficienti a tamponare queste scadenze, il nostro monitoraggio di un eventuale rischio sistemico rimane vigile». Insomma, pur essendo conscio dei rischi economici che le sue azioni possono comportare per l’economia, il Cremlino continua a pensare che evitare il rischio di un’Ucraina che scivoli fuori dall’orbita di influenza russa resti la priorità assoluta: non a caso, rispondendo alla minaccia ucraina, Vladimir Putin non ha usato mezzi termini nel dire che «la nostra nazione continuerà a difendere i russi all’estero e a usare il suo intero arsenale, se necessario».
E qui le implicazioni geofinanziare diventano tanto fondamentali quanto pericolose: finora, infatti, Mosca ha potuto tamponare la situazione facendosi scudo con l’aumento del prezzo del petrolio seguito alle crisi innescatasi in Iraq e Libia, ma quando a Wall Street si sarà raggiunto il livello ottimale di prezzo per non dover coprire, svenandosi, tutte le opzioni call sul prezzo del Brent e gli Usa scenderanno a patti coi tagliagole dell’Isis in Iraq, cosa potrebbe accadere se da 112 dollari al barile si scendesse a un livello che non garantisse più a Mosca un minimo di respiro sul break-even fiscale di revenue – fissato in condizioni normali a 115 dollari al barile – per poter evitare un ampliamento del deficit della bilancia commerciale?
Con il settore energetico che pesa per i due terzi dell’export totale della Russia e per un terzo delle sue entrate correnti di budget, diventeranno le fughe di capitali e il calo del rublo motivo sufficiente per obbligare Vladimir Putin a usare le maniera forti o a minacciare l’Europa direttamente? Il bilancio di budget dello Stato, tolto il petrolio, è passato da uno stato di surplus a uno di deficit pari al 12% del Pil in solo dieci anni, con un crollo dell’export non petrolifero dal 22% all’8% del Pil: una china che definire pericolosa è dir poco.
Con gli Usa ormai lanciatissimi nel loro futuro ruolo di esportatore energetico grazie all’indipendenza garantita dallo shale gas e l’Iran che potrebbe strumentalmente tornare a breve sui desk di interesse della geofinanza globale, l’atrofia economica russa potrebbe davvero essere foriera di sviluppi inimmaginabili. E terribilmente pericolosi per noi europei, legati alla Russia non solo dalla dipendenza energetica – l’export Usa per tamponare l’eventuale chiusura dei rubinetti russi è una pura utopia almeno fino al 2025 – ma anche da un legame culturale che ieri è stato ribadito strumentalmente sulle colonne del Financial Times, non la Pravda, da un editoriale di Dmitri Trenin, direttore del Carnegie Moscow Center, a detta del quale «lo scopo di Mosca è creare una nazione non un impero. Ora la Russia ha la Crimea, ha bisogno di popolo, non di terra. Dovrebbe pensare all’Eurasia come a una nuova Nafta, non una nuova Ue».
I think tank che contano stanno progettando una Tienanmen in salsa russa, un regime change attraverso un crollo dell’economia e attraverso l’utilizzo di quinte colonne ispirate all’ennesima rivoluzione pacifica per i diritti civili e lo stato di diritto in Russia. Un rischio enorme, sia perché Vladimir Putin può ancora contare su un sostegno record da parte dell’orgoglioso popolo russo, sia perché se questo consenso dovesse cominciare a erodersi e il potere a traballare, non esiterebbe a usare tutti i mezzi possibili e necessari. E noi siamo i suoi vicini. L’Ue, in un sussulto di intelligenza e pragmatismo più che di dignità, pensi bene alle mosse che sta per compiere.