FERTILITY DAY/ Il flop dello spot governativo che ignora la crisi della famiglia

- Mauro Bottarelli

Il lancio del Fertility day non è stato esattamente un successo. Anzi, è stato una cantonata clamorosa. Ma, quantomeno, è stato utile. Perché? Il commento di MAURO BOTTARELLI

Fertility-Day_R439 Uno degli spot del Fertility Day

Diciamo che, per usare un eufemismo, il lancio del Fertility day non è stato esattamente un successo. Anzi, è stato una cantonata clamorosa. L’ennesima di questo governo di dilettanti allo sbaraglio ma, quantomeno, è stata utile. 

Utile a svelare una delle ipocrisie di fondo della società in cui viviamo: come si può, infatti, dar vita a un’iniziativa per sensibilizzare sul tema della procreazione — e, quindi, della genitorialità — se da un lato è stato distrutto lo stato sociale che aveva come mattone di base il nucleo famigliare con la funzione primaria di generare figli, e dall’altra è stata promossa una cultura di massa che uccide qualsiasi idea di paternità e maternità? 

E’ un po’ difficile risultare credibili, quando poi i messaggi che si fanno passare sono tutti antitetici all’idea di famiglia: lo Stato, di fatto, attraverso la Rai finanzia film e fiction che mettono continuamente in discussione la famiglia, la censurano, la riducono a stereotipo da vivisezionare in nome di un “altro” che non si capisce quale fondamento prodromico debba garantire alla società futura. 

Vogliamo parlare dei talk show? Come si può pensare di essere credibili, quando iscrivere un figlio all’asilo è missione degna di Indiana Jones? I bonus famigliari sono carità miserevole, se messi a confronti con quelli di altri Paesi, senza andare troppo lontano o sull’esotico, penso alla Francia. La famiglia non la si difende con i Fertility day e nemmeno con i Family day, la si difende con le leggi che garantiscono tutele e diritti. 

Il problema, però, sta alla base: dal Sessantotto in poi, famiglia equivale a schiavitù. Era un dogma da abbattere, un tabù da rifiutare, si è creata una società basata sui consumi, sui capricci e sul piagnisteo, relegando la famiglia a ruolo di comprimario sociale ma scaricandole addosso il peso di un welfare invisibile, perché nella crisi che stiamo vivendo sono i risparmi di nonni e genitori a garantire un ammortizzatore sociale a chi non ce la fa, perché ha perso il lavoro. 

Qual è stata, infatti, la critica di massa all’iniziativa del ministro Lorenzin? Che fosse retrograda, infatti in Rete si sono sprecati i paragoni con le giornate dedicate alla famiglia dai regimi totalitari, dal fascismo allo stalinismo. In effetti, circa un’ottantina di anni fa, Benito Mussolini pronunciò questa frase: “Se le culle sono vuote, la nazione invecchia e decade”. Nulla di geniale, semplice demografia e buon senso ma è il concetto stesso che deve far paura: famiglia, nella società attuale, equivale a totalitarismo, rappresenta un modello e un concetto che si rifugge perché non moderno, non attuale, non al passo con i tempi, non rispettoso degli altri “generi” e stili di vita emersi. Quindi, censura.

Ripeto, l’iniziativa del governo è stata fatta male e comunicata anche peggio (non voglio pensare quanto verrà pagato il creativo di turno che ha dato vita a quelle immagini deliranti) ma resta il fatto che è patetico e in malafede attaccarsi al fatto che il Fertility day sia da condannare perché insulto verso chi non può avere figli: avere figli non è un diritto, è un dono. 

Che, a volte, può non esserci concesso. Esiste l’adozione, ma gli stessi che bollano il Fertility day di spirito retrogrado sono quelli che spingono per arrivare ad aberrazioni come l’utero in affitto, quindi all’imposizione per legge del diritto alla genitorialità a tutti i costi. La vergogna vera è che questo Stato non può promuovere la giornata della fertilità e contemporaneamente permettere che il contratto a tempo determinato medio sia più breve della gestazione. Parliamoci chiaro: nel 2015 il tasso di occupazione femminile è cresciuto (47,2%) ma non abbastanza da ridurre il gap con quello maschile. Le donne inoltre sono più spesso precarie rispetto agli uomini, con uno svantaggio nell’inserimento del mondo del lavoro che resiste anche tra i livelli di istruzione più elevati. Il momento più delicato è infatti proprio il rientro nel mondo del lavoro dopo la maternità: per le madri italiane il tasso di occupazione è del 54%, contro i valori vicini al 70% di Regno Unito, Francia e Germania. Guarda caso, tra i Paesi con i tassi di natalità più alti. E, guarda caso, con politiche attente a favorire la creazione di nuovi nuclei familiari. 

E gli asili? La quota di bambini dagli 0 ai 3 anni presi in carico da una struttura di accoglienza della prima infanzia aveva raggiunto il 28% nel 2008, per poi iniziare a scendere. I servizi crescono solo al Centro Nord, e sono per lo più privati. Va meglio con le strutture che ospitano i bimbi dai 3 anni alla scuola ma il problema è anche un altro: gli orari ridotti e poco flessibili per il tipo di società che abbiamo costruito, quella dell’essere sempre raggiungibile, sempre reperibile, sempre operativo. Chissà come avrà fatto quell’incapace di Henry Ford a costruire un’aziendina come la sua senza e-mail, Internet e palmari?

Ironie a parte, c’è una seconda questione che mi preme sottolineare in questa mia intrusione in un argomento che non fa certo parte delle mie competenze e di questo mi scuso in anticipo con i lettori: non vi pare che esista una netta correlazione tra attacco alla famiglia naturale e immigrazione di massa? Vi offro qualche numero, pubblicato ieri dal quotidiano La Stampa. In Italia solo il 5% dei richiedenti asilo ottiene lo status di rifugiato, mentre il 13% riceve il permesso di soggiorno per protezione sussidiaria, che dura 5 anni e viene rilasciato a chi rischia di subire un danno grave nel caso di rientro nel proprio Paese. Un altro 19% consegue la protezione per motivi umanitari (24 mesi, prorogabili) ma negli ultimi anni, a fronte dell’aumento dei flussi, il Viminale ha imposto una stretta, rendendo i criteri più stringenti. Il risultato è che la quota di domande respinte si è impennata: 22% nel 2012, 39% nel biennio successivo, 59% nel 2015, fino a toccare il 63% nei primi otto mesi del 2016. 

Le richieste di asilo, invece, sono in aumento: 70mila da inizio anno. Nel 2012 furono 17mila, 26mila nel 2013. Il 2014 è stato l’anno del boom con 63mila domande, poi cresciute a 83mila nel 2015. Quest’anno — se la tendenza registrata finora si manterrà costante — supereranno le 100mila. Quel che è certo è che dei quasi 58mila migranti che da inizio 2016 hanno ricevuto risposta alla domanda di asilo in Italia, la maggioranza non può restare: oltre 34mila stranieri hanno ricevuto un foglio di via con l’obbligo di lasciare il territorio nazionale entro dieci giorni. Cosa che quasi mai accade: il documento, spesso, è il preludio a una vita da fantasma nel mondo della clandestinità. 

In parole povere, stiamo assistendo all’invasione di persone che sappiamo preventivamente non aver alcun diritto, né titolo per stare nel nostro Paese ma che lasciamo comunque arrivare, fare domanda e poi vivere da clandestini. E qual è il mantra degli immigrazionisti? Ci pagano le pensioni con i contributi che versano e fanno figli, visto che l’Italia è in perenne calo demografico. Qualcuno ha votato a maggioranza per l’implementazione del piano Kalergi senza avvertire il popolo italiano, per caso? Non sarebbe meglio applicare politiche pro-famiglia in modo di favorire la natalità, invece di renderla un ostacolo alla carriera, unico dogma di questa società marcia? 

Attenzione, il Fertility day è stata una boiata immane ma il moto di indignazione che lo ha esposto al pubblico ludibrio è forse peggio; la famiglia viene colpita perché è una certezza, forse l’unica che abbiamo. E la società progressista e dei diritti per tutti non può permettersi il lusso delle certezze, servono il dubbio e l’indeterminatezza per mantenere alto il livello di disgregazione e caos necessari a governare e soggiogare. 





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